Autore: antonio-calafati

Lezioni di democrazia

La Commissione Europea – il Presidente della Commissione o i singoli Commissari – può chiedere ad esperti o gruppi di esperti di redigere un ‘rapporto indipendente’ su temi di rilievo strategico. Una decisione profondamente radicata nella tradizione delle democrazie liberali, che della razionalità sociale delle loro scelte fanno un elemento identitario. Come ogni attore individuale o collettivo i ‘governi’ hanno una conoscenza limitata, e nel processo di apprendimento che sempre precede una deliberazione i ‘rapporti indipendenti’ possono essere necessari per migliorare la ‘qualità’ delle politiche pubbliche.

Se ti chiedono di scrivere un ‘rapporto indipendente’ sei libero di dire quello che pensi, di elaborare il tema che ti è stato assegnato dalla prospettiva del paradigma teorico nel quale credi, e delle conoscenze empiriche che hai. La contropartita di questa libertà è che sei moralmente obbligato a non farne un uso politico. Il rapporto che hai scritto entra nel dibattito pubblico, all’occasione ti verrà chiesto da chi te lo ha commissionato di presentarlo – e chi te lo ha commissionato ne farà l’uso che vuole. Ma resterà comunque uno strumento di apprendimento collettivo, un esercizio di democrazia.

Nella storia recente dell’Unione Europea uno dei più importanti rapporti indipendenti che sono stati commissionati è certamente quello redatto da Fabrizio Barca, pubblicato nel 2009: An Agenda for a Reformed Cohesion Policy. A place-based approach to meeting European Union challenges and expectations.  Il tema era (allora come ora) molto importante e il Rapporto fu esemplare per la ricchezza e la profondità dell’analisi e delle proposte. Ed esemplare fu anche l’uso che ne fece l’Autore. Chiunque in Europa aveva un interesse per l’evoluzione del progetto europeo lo ha letto e studiato. (E lo si legge e studia ancora oggi).

Qualche mese fa la Commissione Europea ha commissionato a due ex-presidenti del Consiglio italiani – Mario Draghi e Enrico Letta – di redigere due rapporti indipendenti. Ed è stato un passo falso -(quanto falso è poi stato  quello che hanno poi compiuto gli Autori): non si può – semplicemente, non si può – a chiedere due ‘esperti’ con un marcato profilo politico (e persino a chi è stato, anche, Presidente della Banca Centrale Europea) di redigere un rapporto indipendente.

I due rapporti stanno arrivando o sono appena arrivati in questi giorni sul tavolo di chi li ha commissionati, ed è stata la volta degli Autori di distinguirsi nel fare un uso improprio del loto rapporto, coadiuvati da un giornalismo oramai apertamente militante. I contenuti dei due rapporti sono stati anticipati in conferenze pubbliche dagli Autori come se fossero già progetti politici concreti, misure da attuare, riforme da introdurre. Sono stati fatti immediatamente diventare programma politico nel dibattito pubblico, certificato nel suo valore dalla competenza degli esperti che li avevano redatti – esperti che si sono  candidati a realizzare.

La relazione tra i liberali e le elezioni politiche – e il parlamento – è sempre stata difficile, come la storia del liberalismo europeo ci racconta. In Italia, in forme anche troppo palesi – in Europa attraverso la forzatura che ha accresciuto il potere della Commissione Europea – dopo il 1989 le democrazie liberali credono di aver trovato nella tecnocrazia – nel potere da assegnare agli eperti nei processi deliberativi – il modo di vincolare la democrazia e svilire la rappresentanza parlamentare a parodia.

Poi, si è costretti a prendere lezioni di democrazia da Giorgia Meloni – Presidente del Consiglio dopo avere (stra-)vinto la competizione elettorale – che ricorda agli ‘esperti’ che si auto-candidano (e alla tecnostruttura giornalsitico-accademica che queste auto-candidature approva e sostiene) come ci siano le elezioni europee tra qualche mese, da svolgere: nuovi equilibri politici nel Consiglio Europeo, una nuova maggioranza nel Parlamento e una nuova Commissione. E dei rapporti di Mario Draghi ed Enrico Letta si vedrà quale uso ne farà chi sarà eletto.Che dire?

 

Pentimento ed espiazione

According to a report by the Costs of War project at Brown University, as 2021 the number of US soldiers who died in the so-called war on terror was 7,057, and the number of active-duty soldiers or veterans who committed suicide was 30,177. Do policy makers, writers, or citizens, Klay demands throughout the book, shoulder any such burden for twenty-first-century wars? Do we think of those wars at all?

 

Citazione tratta dalla recensione di Suzy Hansen al libro Uncertain Ground: Citizenship in an Age of Endless, Invisible War di Phil Klay (Penguin Book, 2022) – apparsa sulla “New York Review of Books” (n. 19, October 19, 2023, pp. 26-28)

 

Il progetto europeo era tutto lì

Me li ricordo esprimersi a favore dell’auto-determinazione dei popoli. A favore dell’auto-determinazione della Catalogna (dove certo non c’erano solo ‘catalani’ ad abitarla). Me li ricordo a favore dell’auto-determinazione del Kosovo, convinti che fosse necessario trasformare una piccola regione multietnica in uno stato nazionale di meno di due milioni abitanti. Dimenticando che l’auto-determinazione diventa feroce nazionalismo quando la storia ti ha lasciato in eredità un paesaggio ‘contendibile’. (E ricordo, anche, di un viaggio di tanti anni fa, prima della guerra civile in Iugoslavia, a visitare i monasteri ortodossi disseminati nel territorio che oggi ‘appartiene’ alla neonata Repubblica del Kosovo – e non c’erano militari a difenderli, allora).

Mi ricordo muoverci a Sarajevo tra una mixité culturale, linguistica, estetica che ti faceva stare a bocca aperta tutto il tempo, provinciali ai primi viaggi. Poi mi ricordo osservare a Lodz, molti anni dopo, i segni indelebili di una città che era stata profondamente multietnica, in questo non così diversa da Sarajevo, da Odessa, da Salonicco, da Trieste e da tante altre città europee. Erano gli anni in cui si leggeva Danubio (1986) di Claudio Magris, per scoprire, stupiti, che cosa c’era lungo il corso del fiume: un susseguirsi di enclave etniche e linguistiche di cui non immaginavi. Ed erano anni di speranze, mentre il sogno europeo sembrava sul punto di avverarsi. E non si immaginava che si sarebbe letto, solo quindici anni dopo, disillusi e traditi dall’élite politica degli Stati europei, The Balkans (2000) di Mark Mazower: il racconto della straordinaria sovrapposizione di etnie e lingue e culture, per secoli in equilibrio quella parte d’Europa – un equilibrio durato finché il virus dei nazionalismi fatto uscire, di nuovo, dai laboratori occidentali non ha fatto il suo tragico corso. Ma dov’erano i confini nei Balcani? Non c’erano, ma li avevano già tracciati lo stesso, col sangue.

E mi ricordo a Trieste alla fine degli anni Novanta mentre prendeva forma l’ampliamento ad est dell’Unione europea, a discutere di ‘regioni transnazionali’ – di territori indivisibili, dove il paradigma politico del ‘blood and belonging’ poteva solo condurre a tragedie. Cos’erano i confini nella regione transnazionale del Mare del Nord?  O nella regione transnazionale tra Vienna e Bratislava? O tra l’Italia, Slovenia e Croazia? E Leopoli – oggi in Ucraina – non era fino a qualche decennio fa, fino alla Seconda guerra mondiale, una delle più importanti città polacche? Perché l’Europa è così, lo spazio europeo è fatto così: migrazioni interne per secoli, che hanno creato, dovunque, mixité culturali, enclave etniche; un territorio solo appena ‘semplificato’ dalle feroci espulsioni dopo al Seconda guerra mondiale, dall’Istria ai Sudeti, alla Polonia, in ogni angolo. Solo appena semplificato, appunto, ma era ancora come è sempre stato quando inizia l’ampliamento ad est dell’Unione europea dopo la caduta del muro di Berlino.  Ma era già tardi per parlare di regioni transnazionali: il progetto europeo oramai solo una farsa, la tragedia delle guerre nella ex-Iugoslavia già consumata e dimenticata.

Il progetto europeo era tutto lì: dentro lo spazio europeo non si muore più per difendere confini nazionali, per spostarli, per crearne di nuovi. Perché non ha alcun senso farlo. Il progetto europeo era un progetto antimilitarista e non-violento, e nasceva dagli orrori della violenza che si era manifestata in Europa nella prima metà del Novecento in tutte le sue forme. Un sogno che ha iniziato a svanire dopo la caduta del Muro di Berlino, inaspettatamente.  Quando lentamente sono tornati a egemonizzare il discorso pubblico gli intellettuali del ‘blood and belonging’ – intellettuali di sinistra e di destra. Come se non ci fossero state la Prima e la Seconda guerra mondiale a dirci che tutto doveva cambiare in Europa, per sempre.

Nei primi anni Novanta l’Europa centrale e orientale iniziava il percorso di integrazione nell’Unione Europa, ed erano paesi con confini nazionali che dividevano relazioni e paesaggi ai quali la storia non permetteva di dare un significato: e quelli che c’erano erano fittizi. Territori da integrare nel progetto europeo sotto il segno della neutralità militare, della mixité culturale e linguistica – non sotto il segno dei nazionalismi e della Nato.

Nostalgie

Nelle ultime settimane tengo sul tavolo un libro di molti anni fa, del 1984: Neutralität für Mitteleuropa. Das Ende der Blöcke – ovvero: Neutralità per l’Europa centrale. La fine dei blocchi. J. Löser e U. Schilling ne erano gli autori, ed era stato pubblicato dalla casa editrice C. Bertelsmann, certamente una delle più importanti della Germania. L’avevo acquistato nel 1985, all’inizio del mio primo lungo soggiorno a Freiburg i.B.

Lo apro a caso, durante la giornata, e rileggo un paragrafo o poche righe, per nostalgia, certo, ma anche come antidoto al veleno che trasuda dal dibattito pubblico sul presente e il futuro dell’Unione Europea.

La normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Democratica Tedesca (DDR) e con gli altri Paesi dell’Europa Centrale avviata da Willy Brandt nel 1970 aveva raggiunto a metà degli anni Ottanta un grado che suggeriva nuovi scenari per porre fine alla Guerra Fredda, per far scomparire lo spettro di una guerra nucleare. E l’obiettivo di un Europa centrale neutrale – comprese le due Germanie di allora – sembrava potesse entrare nell’agenda politica. La creazione di un ordine mondiale che avrebbe assicurato la pace in Europa stava prendendo forma.

Poi è accaduto quello che è accaduto. Dopo la Caduta del Muro di Berlino, con il trattato di Maastricht del 1992 inizia, lentamente, il processo di ampliamento ad est dell’Unione Europea, che è avvenuto di pari passo con l’ampliamento ad est della Nato. Tutti i Paesi dell’Europa centrale e orientale che oggi fanno parte dell’Unione Europea sono prima entrati a far parte della Nato e solo successivamente sono stati formalmente ammessi nell’Unione Europea.

Finché non entravi a far parte della Nato non entravi a far parte dell’Unione Europea. (Tra i paesi dell’Europa centrale solo l’Austria ha mantenuto la neutralità, con una decisione di rango costituzionale presa nel 1955).

Il tempo di vedere cadere il Muro di Berlino e svanisce il progetto di un’Europa centrale neutrale – ed inizia la decostruzione del progetto europeo. Abbiamo poi smesso di chiederci perché siamo sul sentiero in cui siamo. Perché?

Ho nostalgia degli anni Ottanta del secolo scorso, per il pensiero che prendeva forma sui temi del disarmo, della difesa degli equilibri ecosistemici, della giustizia economica nelle relazioni internazionali. Si aspettava che il Muro di Berlino cadesse, ma non era quello che è oggi sotto i nostri occhi lo scenario che si pensava avrebbe preso forma.

Guerra totale

Avrei voluto poter guardare negli occhi i giornalisti e analisti che questa mattina, nella trasmissione “Radio anch’io” (Radio 1), usavano le espressioni “guerra totale” e “alternativa nucleare”. Che le usavano per descrivere scenari e opzioni politiche da considerare nel conflitto con la Russia.

Ce ne saranno grati

La ‘prossima generazione’ ce ne sarà grata. Ci sarà grata della lungimiranza che ‘noi’ stiamo dimostrando, ora, aumentando la spesa militare, riarmandoci. Sarà necessario farlo indebitandosi sui mercati finanziari internazionali, perché sarebbe difficile trovare spazio nel bilancio pubblico dell’Italia e degli altri paesi dell’Unione Europea per una spesa militare di molto maggiore di quella che già si fa.  Alla prossima generazione sarà lasciato un debito pubblico ancora maggiore, ma è il prezzo che pagherà per vivere in una società libera: il prezzo della libertà. E sarà orgogliosa di ‘noi’, della nostra capacità di costruire il loro futuro, nella libertà.

(Certo, coraggiosi non possiamo dirci: perché le risorse per riarmarci le potremmo ricavare riducendo i consumi oggi, non quelli della prossima generazione.)

Per il mestiere che ho svolto la ‘prossima generazione’ l’ho avuta difronte per tanti, tanti anni. Non era una categoria astratta, si materializzava ogni volta come una classe di studenti – persone con un nome e un cognome, adulti secondo i criteri del nostro atlante occidentale. E quando hai lì davanti chi della prossima generazione fa parte, l’idea che tu possa decidere per loro la società nella quale vorranno vivere – e persino che tu sappia in quale società vorranno vivere prima di loro, meglio di loro –, semmai ti sia venuta, ti apparirà stravagante e forse anche un po’ ridicola.

La prossima generazione che ci sarà grata per il riarmo già esiste. Perché non chiederglielo, allora, cosa pensa del riarmo in Europa? E forse ci dirà che non crede affatto nella relazione causale tra l’aumento della spesa militare oggi e la loro libertà domani, e che il riarmo proprio non lo vuole. E forse ci dirà anche che farlo scaricando su di essa il debito pubblico necessario è arroganza, un esercizio di potere.

Se invece ci dirà che ne è solo felice, e non aspettava altro che una manifestazione concreta della nostra lungimiranza, e capacità di interpretare i loro pensieri e desideri, avremo la legittimità politica e morale di farlo.

L’élite intellettuale e politica che nel dibattito pubblico sta costruendo il consenso sul riarmo dell’Italia e dei Paesi dell’Unione Europea – e che dice ‘noi’ – per conto di chi parla? Quale generazione crede di rappresentare? E di quale generazione crede di interpretare pensieri e desideri?