Categoria: Democrazia

Adesso sì, si può dire ‘capitalismo’

Ascolto un autorevole intellettuale ‘di sinistra’ affermare in una trasmissione televisiva che, finalmente, nel Partito democratico si torna ad usare la parola ‘capitalismo’. Gli sembra un decisivo passo avanti verso il rinnovamento della Sinistra in Italia. Non so che dire, sarà vero. Mi sembra comunque troppo tardi.

Parole che mi hanno suscitato un ricordo, però. A Bologna, dieci anni fa, forse più, proprio alla fine di una relazione che avevo tenuto in un seminario istituzionale – accanto a me, seduti allo stesso tavolo, c’erano i vertici degli amministratori della Sinistra dell’Emilia-Romagna – il moderatore mi rimprovera seccato: “Noi, qui, la parola capitalismo non la usiamo …”. In effetti, riferendomi all’economia della Germania avevo usato l’espressione “il capitalismo tedesco”, anche suggerendo che era una cosa molto diversa dal “capitalismo italiano”. Risposi che per un economista applicato la categoria ‘capitalismo’ è irrinunciabile, perché descrive caratteri profondi di molte economie – e apre la strada alla riflessione sulle varianti in cui il capitalismo si presenta in un dato tempo in un dato luogo.

Non hanno mai avuto remore nell’usare il termine ‘capitalismo’ i liberali, che appena nel 1830 in Francia compiono la loro prima rivoluzione con il capitalismo già consolidato devono convivere, persuasi che sia una modello di economia che serve la causa democratica, la loro causa. Nessuna paura di usare il termine la mostra Martin Wolf nel suo recente libro – “The Crisis of Democratic Capitalism” (2023)– che sto leggendo in questi giorni. Per molti anni al vertice della redazione economica del “Financial Times”, commentatore di grande notorietà, Wolf scrive di un capitalismo che deve essere profondamente riformato – per salvare il capitalismo e la democrazia. (Non tutti i liberali tengono alla democrazia, ma molti sì.)

Se la Sinistra italiana – moderata e radicale – avesse scelto l’Agenda Wolf (come esposta in questo libro) piuttosto che l’Agenda Draghi avrebbe vinto le elezioni. Ma la Sinistra italiana dal 1989 ad oggi ha seguito un percorso che l’ha portata a trovarsi molti chilometri più ‘a destra’ di un analista di riconosciuta competenza ed equilibrio del “Financial Times” – iconico quotidiano economico liberista, la cui redazione nel capitalismo come modello di economia benedetto fermamente crede. Wolf certamente crede, però, in una variante di capitalismo compatibile con la democrazia. E si impegna ad argomentare in un libro di più di 450 pagine come riuscirci – come ritrovare un equilibrio tra democrazia e capitalismo che nella sua interpetazione negli ultimi decenni si è perso, e che in una misura soddisfacente era stato raggiunto tra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino. (Certo, la redazione del “Financial Times” poteva accorgersi prima dove stava andando il capitalismo europeo, e dirlo: ma questo è un altro discorso, da riprendere.)

Chissà, ora che ricominciano a utilizzare il termine ‘capitalismo’ gli intellettuali che hanno legittimato e guidato la metamorfosi della Sinistra italiana dopo il 1989 capiranno dove sono finiti – e dove hanno portato il Paese.

Un lavoro sicuro

Germania, 2023 – Manifesto della Deutsche Bahn (DB)

 

Il manifesto è costruito su una domanda che non ha bisogno di una risposta: – “Per te, avere un lavoro sicuro, è importante?”. Segue un suggerimento “Allora vieni a lavorare nel servizio di ristorazione dei nostri treni…”. È un lavoro sicuro, e sarà nuovo inizio.

Poi l’invito a fare domanda, attraverso il sito web dedicato – sottolineando ancora che è un lavoro sicuro quello che si offre, ripetendo la domanda che ha già una risposta: “Che cosa è importante è per te?

Tutti si meritano un lavoro, decente e senza l’incertezza della precarietà – se lo desiderano.

 

Elegantemente interventista

La foto della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, euforica e felice nella carlinga di un F35, apparsa oggi su “il Manifesto”, non l’avrei pubblicata. E se fossi stato il photo editor mi sarei ostinatamente opposto alle insistenze della redazione o della direzione del quotidiano. Una delle ragioni per leggere “il Manifesto” nell’edizione digitale è la qualità delle foto che vi compaiono. Ma una una foto così non la pubblichi per rispetto delle persone che riprendi. (E mi resta il dubbio che ne avessero una migliore che raccontava la stessa storia, e hanno pubblicato proprio quella per spregio.) A questo è ridotta la Sinistra italiana: ad affermare la propria superiorità morale ed estetica, credendo di neutralizzare la sua inferiorità politica con una foto sbagliata, che qualsiasi fotografo avrebbe cestinato.

La foto allude a una vicenda rispetto alla quale Destra e Sinistra non si distinguono, in niente: non nel convinto invio di armi all’esercito ucraino, non nel sostegno al complesso militare-industriale italiano, non nella fedeltà alla NATO. E allora perché pubblicare quella foto? Che cosa voleva dire ai suoi lettori la Redazione de “il Manifesto” pubblicando quella foto? A quella foto non puoi far dire che sulla guerra Russia-Ucraina Destra e Sinistra sono diverse. A che serve, allora? A dire che Elly Schlein o Stefano Bonaccini – o Enrico Letta – certamente non sarebbero saliti nella carlinga di un F35? E allora? Oppure che se lo avessero fatto lo avrebbe fatto con ‘più stile’, e certo senza stringere i pugni con stupito entusiasmo? E allora?

La Sinistra italiana la pensa precisamente allo stesso modo della Destra sulla questione della guerra Russia-Ucraina. Su molti e decisivi temi prende quando è al governo le stesse decisioni e compie le stesse azioni della Destra, ma lo fa – crede di farlo – con più stile. E si ritiene per questo – per il suo stile – legittimata a giudicare. Si rifugia nell’estetica per distinguersi. Come ha sempre fatto l’élite liberale progressista.

Ma quale stile, poi? (Ah, le questioni di stile.)

Gradite (e incomprese) eredità

Andare al Governo significa ereditare un sistema di norme formali e norme informali. Le prime introdotte dall’azione dei governi precedenti, le seconde generate dall’evoluzione sociale. Sono le ‘condizioni iniziali’, dalle quali prende le mosse ogni nuovo governo, ogni transizione, ogni viaggio. C’è sempre un qui-ora all’origine di un progetto politico. E chi vince le elezioni e va al Governo si propone di cambiare qualcosa di ciò che ha ereditato: di cambiare le norme formali che meno corrispondono alla sua visione, ma anche di orientare l’evoluzione culturale nella direzione che corrisponde ai suoi valori.

La Destra ora al governo in Italia ha ereditato l’ordinamento del mercato del lavoro e del sistema sanitario nazionale, ha ereditato l’ordinamento organizzativo dell’istruzione superiore e dell’università. Ha anche ereditato l’ordinamento giuridico-istituzionale che regola lo sviluppo spaziale delle città e del territorio e quello che regola il sistema finanziario (e bancario); ha ereditato anche l’ordinamento del sistema pensionistico – e molto, molto altro.  Ha ereditato il capitalismo come plasmato in molte delle sue fondamentali sfere dalle politiche della Sinistra italiana, attuate dal 2011 al 2022.  E in nessuna di queste sfere – che sono sfere fondamentali per definire il modello di capitalismo – la Destra propone ora dei cambiamenti.

Un’eredità gradita e certo felice di doverla, ora, soltanto manutenere quella che la Destra ha ricevuto dalla Sinistra. E capisci, se hai voglia di capire, che cosa è diventata la Sinistra italiana dopo la sua metamorfosi iniziata nel 1989. Che cosa è diventata – e non che cosa era diventata – perché la Sinistra di oggi è identica alla Sinistra di ieri, sconfitta alle elezioni del settembre 2022: stesso programma, stesso sentimento.

La Destra non ha però capito che quello che ha ereditato dalla Sinistra è un sistema fallimentare: se quel sistema non avesse fallito non sarebbe ora al Governo. Ma non lo capirà, perché la sua relazione con il capitalismo è idelogica, non politica. Come lo è stata ed è quella della Sinistra italiana anche dopo il 1989.

(Per emendare il capitalismo italiano dai suoi difetti la Destra sembra ora credere che basti l’introduzione della ‘flat tax’ – e progetta di farlo. E non ti lascia scelta tra il riso o il pianto.)

 

 

Gridi di guerra

 

Ma occorre un atto di volontà per andare in cerca della sofferenza altrui.

— Susan Sontag, On Photography (1971)

 

Il Presidente del Consiglio – Giorgia Meloni – si libera della questione del ‘salario minimo’ affermando che la sua introduzione “non la convince”. Certo, avrebbe dovuto dire perché “non la convince”, ma non serviva. La Sinistra moderata e radicale non ha chiarito perché lo vuole introdurre: non ha esplicitato – e apertamente valutato – la configurazione di effetti che comporterebbe sul benessere dei salariati e sull’organizzazione delle imprese. E lei non ha bisogno di contro-argomentare. L’élite intellettuale e politica della Sinistra non l’ha messa di fronte a delle ragioni per farlo, costringendola a discuterle. Rituali gridi di guerra, nessun pensiero.

Dalla metà degli anni Novanta fino al Jobs Act la Sinistra italiana ha pazientemente e con coerenza decostruito il mercato del lavoro. Modificando i suoi fondamenti giuridici ha re-introdotto una drammatica asimmetria di potere nella negoziazione tra chi offre e chi domanda lavoro. Ed ha reso possibile che il lavoro potesse essere negoziato ‘ad ore’. Naturalmente, ha modificato solo una parte del mercato del lavoro, quello ‘degli altri’. Ma di questo ho già parlato in un precedente post.

Il ‘salario orario minimo’ non riduce la precarietà radicale delle relazioni di lavoro, il carattere più spietato del mercato del lavoro competitivo, organizzato come teorizzato dall’élite intellettuale e realizzato dall’élite politica della Sinistra in Italia. (Mentre lavori non sai se lavorerai e quanto lavorerai domani: devi almeno provare ad immaginare come ci sente, anche se in quella condizione non sei mai stato.) Il ‘salario orario minimo non riduce neanche se non in misura irrilevante la possibilità che il lavoro che una persona riesce a ‘vendere’ assicuri un salario ‘di sussistenza’, a sé stesso o alla sua famiglia. Non cambia in nulla le condizioni di indigenza e disagio economico nelle quali si trovano in Italia alcuni milioni di persone.

La Sinistra in Italia, qui-ora, dovrebbe rinunciare all’ipocrita proposta del salario orario minimo, e prendersi il tempo per farci capire se e come intende ri-organizzare il mercato del lavoro italiano quando andrà al governo. Come pensa di rendere il suo funzionamento coerente con i principi costitutivi della democrazia. Ma non lo farà. Si è dimenticata che è nata ancorando la sua azione a uno ‘sguardo etico’ sul capitalismo – uno sguardo liberato dalla retorica mercatista, che vede equilibri dove c’è solo sofferenza. La sofferenza altrui, naturalmente.

Le barricate

Le ‘barricate’ si fanno per difendersi, per difendere uno spazio fisico o metafisico, una costituzione, un sistema di norme formali, per difendere delle idee. Per difendere qualcosa che c’è.

Il salario orario minimo in Italia non c’è, e mi sfugge che cosa può significare affermare che sul quel tema il Partito democratico “farà le barricate”. Il Partito democratico è stato costantemente al governo dal 2011 al 2022 – tranne una breve parentesi (Governo Conte I ) – è mi sfugge anche perché il salario minimo non lo abbia introdotto in tutti questi anni. Naturalmente, ora ha cambiato idea. Ma perché l’ha cambiata? Che cosa vede ora di socialmente benefico che prima non vedeva in un vincolo normativo sulla contrattazione di mercato del valore orario del lavoro?

La discussione sul salario orario minimo che l’élite intellettuale e politica della Sinistra italiana sta conducendo la trovo penosa. L’unica cosa che conta nella vita delle famiglie è avere un reddito da lavoro che assicuri il raggiungimento dei minimi esistenziali e che non vi sia un solo giorno di incertezza sul non raggiungerli. Il lavoro non si può contrattare ‘a ore’, perché la vita non si organizza ‘a ore’.

E comunque, tutti coloro discettano sul salario orario minimo hanno contratti di lavoro ‘a vita’ e salari molto, molto al di sopra della sussistenza (comunque definita). E neanche immaginano che significa correre all’Ufficio postale in tempo e mettersi in fila per cambiare in moneta il voucher che hai ricevuto in cambio di qualche ora di lavoro. Ma promettono ‘barricate’.

Che storia!

Quello che vedo, quando guardo

Il mio precedente post – Il mercato del lavoro degli altri – è stato ri-pubblicato, come parte di un post di Stefano Cardini,  sul portale del Phenomenology Lab (Università Vita-Salute San Raffaele) diretto da Roberta De Monticelli.

Il post è stato commentato dalla De Monticelli – commento al quale sia io che Stefano Cardini, abbiamo replicato.

Qui sotto trovate la mia replica – ma potete seguire la discussione direttamente sul portale del Phenomenology Lab.

(Nel mio post precedente ho usato il termine ‘mercato’ come sinonimo di ‘mercato competitivo’ – che l’uso corrente. Gli economisti – almeno quelli che hanno studiato Karl Polanyi – distinguono accuratamente tra ‘mercato’ e ‘mercato competitivo; ne parlerò in un prossimo post, perché mi accorgo che è una fonte di equivoci.)

 

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“Il mio mestiere non è riflettere sui dilemmi filosofici del pensiero liberale, bensì sui caratteri concreti – contingenti – dell’organizzazione economica, del capitalismo. L’economia come scienza sociale nasce con Adam Smith che fissa nel suo statuto disciplinare lo ‘sguardo etico’. Uno sguardo che è lo stesso che ha Alexis de Tocqueville mentre visita Manchester al culmine della Rivoluzione industriale – negli stessi mesi in cui lo fa Friedrich Engels, inconsapevoli l’uno dell’altro. E vacillano i suoi principi liberali difronte a quello che vede. Lo sguardo etico dell’economia che consolida e raffina non crea imbarazzi a John Stuart Mill, perché il suo liberalismo, per quanto elitario, già inclina al sociale, e crede nella capacità che ha la democrazia di regolare il capitalismo. Il seguito lo sappiano: abbandonare lo sguardo etico – come suggerisce Hayek – o smettere di guardare, perché la perfezione del capitalismo la puoi kantianamente dimostrare rimanendo seduto sulla poltrona filosofica, come suggerisce la ‘scolastica economica’? Questo è il dilemma dei liberali (filosofico? morale? politico?).

Quello che io vedo, guardando con i miei occhi, all’occorrenza attraverso gli obiettivi della mia macchina fotografica, e la materializzazione di ciò che racconta l’evidenza empirica che l’Istat – e molti altri centri di ricerca – mette quotidianamente sul tavolo (o sullo schermo) di chiunque sia interessato: una catastrofe sociale e morale. E quello che vedo mi fa dire che un capitalismo così – il capitalismo che la Sinistra italiana ha costruito con le sue mani dopo il 1989 – la democrazia italiana non lo regge.

E seguo Raymond Geuss (Not Thinking like a Liberal, The Belknap Press, 2022) nel pensare che l’intersezione tra democrazia, liberalismo e capitalismo che si presenta come una “anti-ideology par excellence” è in effetti una “total ideology”. Alla quale ha aderito, perdendosi, l’élite intellettuale e politica della Sinistra italiana.”

Il mercato del lavoro degli altri

1.

Escluso l’intermezzo del Governo Conte I (giugno 2018-agosto 2019), il Partito Democratico è stato costantemente al Governo dal 2013. Ha promosso il Jobs Act – la più recente delle forzature mercatiste che via via hanno trasformato le relazioni di lavoro in Italia dagli anni Novanta –, poi approvato nel 2015 durante il Governo Renzi. Ma per sette anni – lunghi e dolorosi per chi ha subito le conseguenze della legislazione introdotta con il Jobs Act – lo ha difeso.

Il Movimento 5 Stelle è stato costantemente al Governo dal 2018 – in una posizione dominante in Parlamento. Dal settembre 2019 al gennaio 2021 (Governo Conte II) lo è stato assieme al Partito Democratico. Non ha mai sollevato il tema del cambiamento dei fondamenti giuridici delle relazioni di lavoro – o proposto l’abolizione del Jobs Act.

La Sinistra italiana ha iniziato a modificare la legislazione sulle relazioni di lavoro in senso mercatista a metà degli anni Novanta, con il Governo Prodi. Ora si dovrebbe rivedere l’intera legislazione sulle relazioni di lavoro – e non solo abolire il Jobs Act. Ma nessuna coalizione, movimento o partito – e certo non il Partito democratico – ha intenzione di riaprire uno dei capitoli fondamentali della crisi sociale e morale dell’Italia: la spietata legislazione delle relazioni di lavoro.

2.

La maggior parte di chi ha un lavoro oggi in Italia “non sta sul mercato del lavoro”. Non ci sta l’élite politica, giornalistica e accademica che governa la legislazione del mercato del lavoro, che partecipa e segna il dibattito pubblico su questo tema. Non ci sono anche i magistrati e i professori universitari, la burocrazia nazionale e locale, gli insegnanti, molti occupati nei servizi, nella manifattura e nell’agricoltura. Ed è giusto che sia così. Perché il lavoro non è una merce e non può essere scambiato sul mercato. E dopo la Seconda Guerra mondiale – dopo i drammi del “secolo degli estremi” (Eric Hobsbawm) – il ‘mercato del lavoro’ era stato lentamente cancellato come dispositivo che governa le relazioni di lavoro – mentre si consolidava il ‘capitalismo sociale’. Sostituito dalla contrattazione collettiva, che fissa salario e condizioni di lavoro – sulla base dei quali ogni persona presta il suo lavoro. Giusto così – ma, allora, nessuno dovrebbe essere costretto a stare sul mercato d lavoro.

Dopo il 1989, in Italia l’élite intellettuale e politica della Sinistra ha iniziato a credere negli effetti benefici di mettere sul mercato del lavoro, settore per settore, un sottoinsieme sempre più numeroso di lavoratori. Cambiamento normativo dopo cambiamento normativo, ha fatto aumentare il numero di persone costrette ad andare sul mercato del lavoro per sopravvivere – letteralmente per sopravvivere. Ma sono “gli altri” ad essere stati scaraventati sul mercato del lavoro, costretti a lavorare in condizioni di incertezza esistenziale ed economica che già all’inizio dell’Ottocento apparivano inaccettabili.

Il mercato del lavoro di cui parlano i leader politici e i disorganici intellettuali della Sinistra italiana è il mercato del lavoro “degli altri”. “Gli altri” devono stare sul mercato del lavoro.

 

Il PNRR si può modificare

Credo che nessuno sappia come la Destra modificherebbe il PNRR se il 25 settembre vincesse le elezioni. Ha annunciato che lo farà, ma credo che non lo sappia neanche lei. Se andrà al governo avrà il tempo per decidere e attuare le modifiche che intende fare.

La tecnostruttura politica, giornalistica e accademica liberista che ‘governa’ l’Italia, nella quale il Partito Democratico si identifica completamente (ne è il motore politico, in verità), può dire che la Destra modificherà il PNRR in peggio. Non dovrebbe dire, però, – ma continua a farlo con ostinazione – che il PNRR non può essere modificato. Non lo dovrebbe dire perché è falso. Il PNRR può essere modificato, adeguato alle nuove condizioni, come sempre si è fatto per l’uso dei fondi europei. Ridiscutere in corso d’opera l’impiego delle risorse dei ‘fondi strutturali’ e della ‘politica agricola comune’ – le principali componenti del Bilancio dell’UE – lo si è sempre fatto. Con i drammatici eventi che stanno sconvolgendo l’economia europea (e mondiale) lo si dovrà fare e lo si farà.

Come si fa a dire, credendoci, che non si dovranno spostare le risorse del Bilancio Europeo 2021-2027 – e quindi del PNRR – su misure che compensino gli effetti sociali ed economici della crisi energetica, ad esempio?

La Sinistra italiana – ma anche il Movimento 5 Stelle – ha mistificato senza imbarazzo e pudore il significato e la portata del PNRR mentre lo costruiva durante il Governo Conte 2 e il Governo Draghi, e ora continua a farlo affermando che “non si può modificare”. Della mistificazione del PNRR avevo discusso in un breve saggio ­ – “La Sinistra italiana e il PNRR” – che ho pubblicato più di un anno fa sul portale della “Casa della Cultura” di Milano. Scrivevo che il PNRR non avrà neanche lontanamente gli effetti sul reddito e sull’occupazione annunciati;  che è soprattutto un piano marcatamente liberista di riforme dei fondamenti giuridici del capitalismo italiano; che la condizionalità – riceveremo trasferimenti e prestiti solo se si attuano le “riforme” – era solo retorica, gioco delle tre carte, e che diventa persuasiva in un Paese con un dibattito pubblico allo sbando. (Secondo l’architettura dell’Unione Europea, non esiste – non può esistere – nessuna condizionalità generale sui fondi del Bilancio europeo (e il PNRR e parte del Bilancio europeo).)

Si può anche ritenere che la Destra, una volta al Governo, farà naufragare l’economia italiana, ma opporsi ad essa in campagna elettorale con argomentazioni artefatte non conduce da nessuna parte (ed è moralmente riprovevole).

Quali sono le modifiche che la Sinistra – la sua tecnostruttura – teme che la Destra attui? Il non dirlo (nessuno dei suoi leader lo ha detto) equivale a farne solo una questione di (non dimostrata) ‘incompetenza’: come dire, qualsiasi cosa faranno, sbaglieranno (tecnocrazia per sempre, quindi?). Dare agli altri dell’incompetente tradisce, spesso, la propria arroganza intellettuale. Ma può essere anche un modo per de-politicizzare le scelte pubbliche: l’Agenda Draghi  per sempre, appunto.

Non è il naufragio della Sinistra quello che abbiamo sotto gli occhi, perché c’è già stato. Sono voci dall’isola deserta dove sono approdati i suoi leader quelle che si sentono.

 

 

Il capitalismo italiano finirà male

Ascolti un leader di partito – uno qualsiasi dei tanti che lo fanno – scagliarsi contro misure di redistribuzione della ricchezza finanziaria e reale nell’Italia di oggi – un Paese con uno stock di ricchezza privata strabiliante, fuori scala secondo qualsiasi criterio di sostenibilità economica. Ascolti il giornalista – uno dei tanti che lo fanno – che, ugualmente, si scaglia – perché lui è un ‘liberale’ – contro l’idea stessa che in un’economia capitalistica lo Stato possa dare una misura equa alla distribuzione della ricchezza. Senti definire “invidia sociale” la motivazione che sarebbe all’origine del progetto di rendere più equa la distribuzione della ricchezza. Con molta frequenza, in queste settimane di campagna elettorale, ascolti e leggi di riflessioni che interpretano la ricchezza privata – la ‘proprietà’ – in un’economia capitalistica come intoccabile.

Ma da dove viene questa idea, proposta come una verità, come indiscutibile? Certo, non dagli scienziati sociali – filosofi, economisti, sociologi, antropologi –, universalmente considerati i maggiori interpreti del capitalismo dalla fine del Settecento fino ai nostri giorni. Molti di essi liberali per convinzione e generale acclamazione.

Certo, questa sacralità della ricchezza privata non ha origine nel pensiero di Adam Smith che ci ha insegnato in cosa consiste ‘lo sguardo etico sul capitalismo’. Certo, non in John Stuart Mill, che ha intrecciato per sempre etica, economia, politica. Certo, non in Karl Marx che, come in tutta la riflessione economica che lo ha preceduto, identificava il capitalismo nella sua capacità di generare investimento reale – nella sua capacità di accumulazione di macchinari e conoscenza (non di ricchezza privata). Certo, non in John M. Keynes che del detentore di ricchezza presagiva l’eutanasia. Certo, non in Joseph A. Schumpeter… Certo, non in John Rawls, che riprende il filo del discorso della relazione tra democrazia e capitalismo ancorandolo alla giustizia distributiva. Si potrebbe continuare a lungo, molto a lungo richiamando le profonde e autorevoli riflessioni sul capitalismo e sulla sua relazione con la democrazia liberale che si sono susseguite, e che non giustificano in nessun modo lo stock di ricchezza privata e la sua distribuzione che si ha oggi in Italia.

I veri (e incosapevoli) anticapitalisti in Italia sono gli intellettuali e i politici che hanno trasformato in un tabù la redistribuzione della ricchezza privata – praticamente tutti i partiti e movimenti che hanno un minimo (minimo) di seguito (e i loro disorganici intelettuali). Che non hanno idea di cosa sia e come funzioni il modello di economia che governano. Il capitalismo italiano finirà male.