Il progetto europeo era tutto lì

Me li ricordo esprimersi a favore dell’auto-determinazione dei popoli. A favore dell’auto-determinazione della Catalogna (dove certo non c’erano solo ‘catalani’ ad abitarla). Me li ricordo a favore dell’auto-determinazione del Kosovo, convinti che fosse necessario trasformare una piccola regione multietnica in uno stato nazionale di meno di due milioni abitanti. Dimenticando che l’auto-determinazione diventa feroce nazionalismo quando la storia ti ha lasciato in eredità un paesaggio ‘contendibile’. (E ricordo, anche, di un viaggio di tanti anni fa, prima della guerra civile in Iugoslavia, a visitare i monasteri ortodossi disseminati nel territorio che oggi ‘appartiene’ alla neonata Repubblica del Kosovo – e non c’erano militari a difenderli, allora).

Mi ricordo muoverci a Sarajevo tra una mixité culturale, linguistica, estetica che ti faceva stare a bocca aperta tutto il tempo, provinciali ai primi viaggi. Poi mi ricordo osservare a Lodz, molti anni dopo, i segni indelebili di una città che era stata profondamente multietnica, in questo non così diversa da Sarajevo, da Odessa, da Salonicco, da Trieste e da tante altre città europee. Erano gli anni in cui si leggeva Danubio (1986) di Claudio Magris, per scoprire, stupiti, che cosa c’era lungo il corso del fiume: un susseguirsi di enclave etniche e linguistiche di cui non immaginavi. Ed erano anni di speranze, mentre il sogno europeo sembrava sul punto di avverarsi. E non si immaginava che si sarebbe letto, solo quindici anni dopo, disillusi e traditi dall’élite politica degli Stati europei, The Balkans (2000) di Mark Mazower: il racconto della straordinaria sovrapposizione di etnie e lingue e culture, per secoli in equilibrio quella parte d’Europa – un equilibrio durato finché il virus dei nazionalismi fatto uscire, di nuovo, dai laboratori occidentali non ha fatto il suo tragico corso. Ma dov’erano i confini nei Balcani? Non c’erano, ma li avevano già tracciati lo stesso, col sangue.

E mi ricordo a Trieste alla fine degli anni Novanta mentre prendeva forma l’ampliamento ad est dell’Unione europea, a discutere di ‘regioni transnazionali’ – di territori indivisibili, dove il paradigma politico del ‘blood and belonging’ poteva solo condurre a tragedie. Cos’erano i confini nella regione transnazionale del Mare del Nord?  O nella regione transnazionale tra Vienna e Bratislava? O tra l’Italia, Slovenia e Croazia? E Leopoli – oggi in Ucraina – non era fino a qualche decennio fa, fino alla Seconda guerra mondiale, una delle più importanti città polacche? Perché l’Europa è così, lo spazio europeo è fatto così: migrazioni interne per secoli, che hanno creato, dovunque, mixité culturali, enclave etniche; un territorio solo appena ‘semplificato’ dalle feroci espulsioni dopo al Seconda guerra mondiale, dall’Istria ai Sudeti, alla Polonia, in ogni angolo. Solo appena semplificato, appunto, ma era ancora come è sempre stato quando inizia l’ampliamento ad est dell’Unione europea dopo la caduta del muro di Berlino.  Ma era già tardi per parlare di regioni transnazionali: il progetto europeo oramai solo una farsa, la tragedia delle guerre nella ex-Iugoslavia già consumata e dimenticata.

Il progetto europeo era tutto lì: dentro lo spazio europeo non si muore più per difendere confini nazionali, per spostarli, per crearne di nuovi. Perché non ha alcun senso farlo. Il progetto europeo era un progetto antimilitarista e non-violento, e nasceva dagli orrori della violenza che si era manifestata in Europa nella prima metà del Novecento in tutte le sue forme. Un sogno che ha iniziato a svanire dopo la caduta del Muro di Berlino, inaspettatamente.  Quando lentamente sono tornati a egemonizzare il discorso pubblico gli intellettuali del ‘blood and belonging’ – intellettuali di sinistra e di destra. Come se non ci fossero state la Prima e la Seconda guerra mondiale a dirci che tutto doveva cambiare in Europa, per sempre.

Nei primi anni Novanta l’Europa centrale e orientale iniziava il percorso di integrazione nell’Unione Europa, ed erano paesi con confini nazionali che dividevano relazioni e paesaggi ai quali la storia non permetteva di dare un significato: e quelli che c’erano erano fittizi. Territori da integrare nel progetto europeo sotto il segno della neutralità militare, della mixité culturale e linguistica – non sotto il segno dei nazionalismi e della Nato.

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