Categoria: Società italiana

L’ipocrisia dei liberali

Un’associazione culturale mi aveva invitato a tenere un seminario sulle quattro maggiori città (e aree metropolitane) italiane. Era il 2017, a gennaio. Distratto, non mi ero reso conto che il seminario si sarebbe tenuto in un’aula di uno degli edifici che ospitano il Parlamento. All’entrata, per fare il pass, mi tolgo il giaccone invernale, tra lo sgomento di commessi e accompagnatori: non indossavo la giacca!

Non entro nei dettagli, ma ero veramente (borghesemente, se volete) ben vestito: un cardigan a tinta unita, cravatta e camicia di fattura e così via. Irritato sgomento da parte di tutti, e alla fine compromesso: “Si rimetta il giaccone, e lo indossi finché non raggiunge l’aula del seminario, poi  …”.

Non ho nulla contro gli standard di decoro stabiliti dalle istituzioni, e mi ero vestito per l’occasione. Del vincolo della giacca non mi ero ricordato, non avevo fatto caso al luogo dove sarei andato. L’avrei indossata, senza esitazioni o desiderio di rompere le regole. D’altra parte, l’ho sempre indossata.

C’è un ‘però’ in questa storia, e ha a che vedere con una convinzione che ho maturato ed è oramai salda (qualche lettura mi ha aiutato): il carattere distintivo del liberalismo – e dei suoi adepti – è l’ipocrisia. (Le eccezioni tra i suoi adepti – rare – ci sono, ma non lo redimono.)

Proprio in questi giorni sembra concludersi l’infinita diatriba sugli impedimenti alla concorrenza che l’accordo ITA-Lufthansa porrebbe, e proprio in questi giorni le mature democrazie liberali – di cui la Commissione europea sarebbe l’espressione – introducono dazi elevatissimi sulle importazioni dalla Cina delle auto elettriche. D’accordo, tema troppo complicato quello dei dazi, solo per economisti. Comunque, una storia di ipocrisia lunga un paio di secoli, da quando i liberali hanno iniziato a interpretare il capitalismo attraverso la retorica mercatista. Sono contro o a favore dei dazi i sedicenti liberali?

Ma torniamo al Parlamento (italiano). Guardo un breve video disponibile in rete nel quale si vede scendere di corsa nell’emiciclo un esagitato parlamentare con la bandiera tricolore tenuta stesa a braccia aperte, con la quale si appresta ad avvolgere un altro parlamentare di diverso colore politico, che non gradisce e indietreggia

Stop, fermo immagine. Quello che un liberale dovrebbe vedere nel gesto del parlamentare è una rottura del decoro istituzionale gravissima, da meritarsi la decadenza dello status di rappresentante del popolo. E che riprovi alle prossime elezioni.

Riparte il video, e si vede una ‘muta‘ di parlamentari – più esagitati del primo con la bandiera tricolore – circondarlo inferociti con l’intenzione di fargli del male, con modi così scompostamente illiberali.

Elias Canetti dedica all’analisi della ‘muta’ il secondo capitolo del suo leggendario “Masse e potere” (1960). Chi quel libro lo ha letto sarà rimasto raggelato dalla sequenza avvenuta nell’emiciclo – dall’orrore che può nascere dall’azione di una ‘muta’ di uomini inferociti. Ne consiglio la lettura, ed è il secondo consiglio che oggi mi permetto di dare (a rifletterci, gemello del precedente, perché nel suo breve articolo Toni Capuozzo di questo parla).

Se c’è una cosa che cozza con l’idea di una democrazia liberale è la ”muta’ che si scaglia contro un uomo solo. Dunque, dalla prospettiva liberale i membri della ‘muta’ andrebbero identificati, espulsi dal Parlamento italiano con il divieto perenne di ricoprire una carica politica. E ci sono state molte ‘azioni’  nel Parlamento italiano negli ultimi anni – portate a termine come si conviene in giacca e cravatta – che alla luce dei proclamati principi liberali avrebbero meritato l’espulsione e la radiazione a vita dall’albo degli eleggibili.

Ma il liberalismo è un pensiero amorfo – e le democrazie liberali sono dei regimi che si schermano con l’ipocrisia. Quanto infastidito sgomento per la mia giacca lasciata a casa – e quante risentite condanne per una protesta giovanile che si esprime con due pennellate di vernice lavabile sui muri sacri che proteggono il Parlamento! E quanta comprensione, invece, per lo sconsiderato e ridicolo sbandieratore e per la ‘muta’ di parlamentari che gli si è scagliata addosso – nell’emiciclo dell’istituzione sacra della democrazia!

Quale antifascismo?

In un precedente post mi sono sentito di dire che cosa intendo con l’espressione «antifascismo», cosa si dovrebbe intendere oggi. Una riflessione personale, per sentirmi consapevolmente distante da un uso troppo spesso retorico e a volte ambiguo di questa espressione. Oggi ho letto un bellissimo articolo di Toni Capuozzo: “Quale antifascismo si insegna? È apparso sul quotidiano on line “Ultima bozza”. Non aggiungo altro, se non il suggerimento di leggerlo.

Il miracolo dell’antifascismo

Il miracolo dell’antifascismo è stato il coagularsi degli ideali che lo hanno guidato in un sorprendente progetto democratico. L’Assemblea costituente – eletta a suffragio universale nel giugno del 1946 (e sarà poco meno del 90% degli aventi diritto al voto a partecipare alle elezioni) – scriverà, e approverà il 22 dicembre del 1947, una costituzione esemplare, che incarnava nella sua espressione più alta le idealità democratiche nate in Europa con le Rivoluzioni liberali e maturate nel corso dell’Ottocento nel confronto con il socialismo riformista. Un miracolo, che un movimento nato per opporsi a una dittatura sia poi capace di realizzare un progetto istituzionale di così straordinario valore.

Un miracolo, che avviene poco prima che diventi impossibile che si realizzi, mentre tutto sta cambiando negli equilibri politici e geo-politici. La transizione dal Governo Parri al Governo De Gasperi, nei mesi convulsi tra il giugno e il dicembre del 1945 – che Carlo Levi racconterà in un libro straordinario: L’orologio (1950 ) – segna l’inizio di un percorso che si conclude con le elezioni del 1948. La Democrazia Cristiana conquisterà la maggioranza assoluta relegando all’opposizione per decenni le organizzazioni politiche di ispirazione socialista, ponendo fine – sullo sfondo della Guerra Fredda – al radicalismo democratico che segna la Costituzione italiana. Ma a quel punto la Costituzione generata dalle idealità dell’antifascismo era comunque nata, il miracolo si era realizzato.

Il radicalismo democratico tornerà nella politica italiana all’inizio degli anni Sessanta sotto la spinta del cattolicesimo progressista e delle organizzazioni politiche della Sinistra – e dei maggiori sindacati dei lavoratori. (Nel 1963 il Partito Socialista entra per la prima volta dopo il 1948 a far parte del Governo.) Prende forza il processo di costruzione dello stato sociale (o del capitalismo sociale, che credo sia un termine più preciso). L’approvazione dello “Statuto dei lavoratori” (1970) e la nascita del “Servizio sanitario nazionale” (1980) sono stati due episodi chiave di un processo attraverso il quale, come in altri paesi europei negli stessi decenni, si consolida la sovranità della democrazia sul capitalismo. Ma il processo si arresterà presto, e inizierà un cammino a ritroso.

Dopo la Caduta del Muro di Berlino – e la “fine della storia” interpretata come trionfo del capitalismo sovrano – il radicalismo democratico sarà ripudiato dalla Sinistra italiana, che tradisce così la sua storia e i suoi ideali. E se ne perderà ogni traccia, perché nessun’altra organizzazione politica accetterà di riceverlo in eredità. Il miracolo dell’antifascismo diventa inutile, dimenticato, dopo il 1989.

Scrive uno dei maggiori storici del Fascismo, Emilio Gentile, in Chi è fascista (Laterza, 2019) – un libro irrinunciabile per alimentare una cittadinanza consapevole (che ho ripreso in mano in questi giorni di isteriche contrapposizioni, che ogni anno riaffiorano con l’avvicinarsi del 25 aprile): “Non credo che abbia alcun senso, né storico, né politico sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia …”(p. 3). Che può significare, allora, dirsi ‘antifascisti’ qui e ora, se non significa – come per nessuna organizzazione politica più significa – riscoprire la radicalità democratica che segna la Costituzione italiana?