Categoria: Società italiana

Fuori controllo

Nella deriva della Sinistra italiana, che inizia nel 2007 e si conclude con il naufragio alle elezioni del settembre 2022, l’introduzione del “Superbonus 110%” è stato un passaggio rivelatore. Perché solo un’organizzazione politica allo sbando, senza punti di riferimento intellettuali ed etici poteva sostenere una misura del genere. Una misura che violava anche il più blando principio di equità distributiva, anche il più approssimativo standard di razionalità sociale, anche la più elementare interpretazione degli effetti degli incentivi economici, anche il più flessibile dei vincoli di sostenibilità finanziaria – e persino la logica del più cinico dei calcoli politici (soltanto una frazione elettoralmente irrilevante di elettori ne riceveva un beneficio). Allo sbando la Sinistra ‘politica’ in tutta evidenza lo era – ma lo era anche la Sinistra ‘intellettuale’, ovvero la tecnostruttura giornalistico-accademica della Sinistra moderata e radicale. Difronte a una misura tanto imbarazzante sul piano tecnico, etico e politico, l’élite intellettuale della Sinistra avrebbe dovuto mobilitarsi per contrastarla, ma non lo ha fatto.

La tecnostruttura giornalistico-accademica neoliberale, che si è saldata con la Sinistra e mantiene da anni una completa egemonia culturale sull’interpretazione del capitalismo italiano, si era mobilitata durante il Governo Conte I (giugno 2018-settembre 2019) per mostrare l’incurabile incompetenza del M5S. Ma non si mobilita per mettere in evidenza l’incompetenza che la Sinistra ‘politica’ mostra approvando, in accordo con il M5S, la misura del “Superbonus edilizio 110%” durante il Governo Conte II (nato da uno spettacolare esercizio di trasformismo da parte dei movimenti e partiti che ne garantivano la maggioranza parlamentare).

L’evidenza della irrazionalità e immoralità di quel provvedimento affiora durante il Governo Draghi attraverso studi e indagini giornalistiche, per svanire rapidamente senza lasciare segni. Il Governo Draghi mostra di non avere alcuna autorità – né politica né tecnica – e non interviene per correggere una misura di politica economica che considera finanziariamente insostenibile. E lascia in eredità al Governo Meloni evitare che il “Superbonus edilizio 110%” trascini l’Italia in una crisi finanziaria.

La spesa per finanziare il “Superbonus edilizio 110%” è molto elevata. Le stime non sono né precise, né ufficiali – e già questo rende perplessi. Non dovrebbe comunque essere inferiore a 60-80 miliardi: ammontare superiore a quello delle ‘sovvenzioni’ previste dal PNRR per l’intero ciclo settennale del Bilancio europeo. Sul “Superbonus edilizio 110%” il Governo Conte II ha costruito una retorica della transizione ecologica (e della crescita economica). Sul PNRR il Governo Draghi ha costruito una retorica della rinascita nazionale. Quali fossero gli effetti reali di breve e lungo periodo di queste due politiche pubbliche non è mai stato un tema di dibattito pubblico. I Partiti e i Governi che le hanno proposte e approvate le hanno vendute come prodotti, falsificandone le caratteristiche.

Lo scientismo, con tutti i suoi modelli economico-statistici con i quali si crede di derivare gli effetti delle politiche pubbliche – scientismo nel quale la Sinistra italiana è scivolata quando ha scelto il paradigma mercatista come interpretazione del capitalismo –, non riesce più a nascondere che il bilancio pubblico italiano è ‘fuori controllo’, che la sua formazione non rispetta più il vincolo di razionalità sociale che ne legittima il carattere democratico.

Extra-profitti

Improvvisamente, nel dibattito pubblico italiano è entrato il termine ‘extra-profitti’, il nome dato al fenomeno di un rapido e notevole incremento dei profitti di imprese che operano nello stesso mercato. E si è cominciato a parlare degli extra-profitti delle case farmaceutiche, degli extra-profitti delle banche. E di recente il Governo italiano ha proposto di tassare proprio gli extra-profitti delle banche.

Per tassare gli extra-profitti si deve distinguere nel bilancio di un’impresa i profitti ‘normali’ da quelli ‘anormali’ – gli extra-profitti, appunto. Sugli extra-profitti si dovrà poi applicare un’aliquota specifica, che dovrà essere più elevata (molto più elevata) di quella vigente sui profitti ‘normali’. Sembra semplice farlo, ma non lo è affatto, e ne nascerà una controversia senza fine se il Governo conferma le intenzioni. Non è semplice perché nei bilanci delle imprese non c’è modo di distinguere la quota di profitto ‘normale’ da quella ‘anormale’ se non introducendo una valutazione etica, espressa poi come valutazione politica. Che poi dovrebbe diventare tassazione fortemente progressiva dei profitti.

La proposta ha creato sgomento tra i liberali di fede mercatista – tra i liberali-liberisti –, che non tollerano neppure il minimo accenno allo sguardo etico sul capitalismo, soprattutto quando è lo sguardo della democrazia che dovrebbe farsi etico. Temono che si diffonda l’opinione che sia legittimo il giudizio politico sugli esiti del mercato. Lo sgomento si sta trasformando in filosofeggianti obiezioni (fatte da chi non sa letteralmente di cosa parla quando parla di capitalismo), e si sta mobilitando la tecnostruttura giornalistico-accademica neoliberale per contrastare la decisione del Governo.

Sarà una storia da seguire, nelle prossime settimane – che certo non finirà come il Governo ha annunciato. Una storia che contiene, però, un’altra storia molto più significativa, che è in cerca di protagonisti. Prima di preoccuparsi dello sguardo etico della democrazia che si accende, i liberali-liberisti dovrebbero soffermarsi su un fatto, ancora più preoccupante dalla loro prospettiva: la simultanea e grande crescita dei profitti realizzati da tutte le banche ha evidenziato (si dovrebbe dire: confermato – e non era necessario) che quello dei servizi bancari e finanziari non è un mercato concorrenziale. Nessuna banca ha provato ad aumentare la propria quota di mercato con una politica dei prezzi dei suoi servizi diversa da quella delle altre banche. L’insieme delle banche si è comportato come un ‘cartello’.

Ora, chi ha la responsabilità politica dei fondamenti giuridici del sistema bancario e finanziario italiano? Chi ha la responsabilità del fatto che quello dei servizi bancari e finanziari non è, in virtù dei suoi fondamenti giuridici, un mercato competitivo? Che ne pensano gli intellettuali e i politici di fede liberal-liberista?

Sarà molto sfocato e incerto – e anche parziale – lo sguardo etico che il Governo getta ora sugli esiti del mercato – sul funzionamento del capitalismo italiano. Sarà solo propaganda alla quale non seguirà nulla di concreto. Sarà anche uno sguardo ipocrita perché, in realtà, è solo ricerca disperata di fondi per far quadrare il bilancio pubblico. Richiama, comunque, un tema di grande importanza, che segna la riflessione sul capitalismo sin dall’inizio dell’Ottocento, da quando si consolidano le democrazie liberali – e il non averlo svolto è una delle ragioni che ha condotto la Sinistra italiana al naufragio.

Elegantemente interventista

La foto della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, euforica e felice nella carlinga di un F35, apparsa oggi su “il Manifesto” non l’avrei pubblicata. E se fossi stato il photo editor mi sarei ostinatamente opposto alle insistenze della redazione o della direzione del quotidiano. Una delle ragioni per leggere “il Manifesto” nell’edizione digitale è la qualità delle foto che vi compaiono. Ma una foto così non la pubblichi per rispetto delle persone che riprendi. E mi resta il dubbio che ne avessero una migliore che raccontava la stessa storia, ma hanno pubblicato proprio quella per spregio. A questo è ridotta la Sinistra italiana: affermare la propria superiorità morale ed estetica, credendo di neutralizzare la proproia inferiorità politica con una foto che qualsiasi fotografo avrebbe cestinato.

La foto allude a una vicenda rispetto alla quale Destra e Sinistra non si distinguono, in niente: non nel convinto invio di armi all’esercito ucraino, non nel sostegno al complesso militare-industriale italiano, non nella fedeltà alla NATO. E allora perché pubblicarla? Cosa voleva comunicare ai suoi lettori la Redazione de “il Manifesto”? A quella foto non puoi far dire che sulla guerra Russia-Ucraina Destra e Sinistra sono diverse. A cosa serve, allora? A dire che Elly Schlein o Stefano Bonaccini – o Enrico Letta – certamente non sarebbero saliti nella carlinga di un F35? Oppure, che se vi fossero saliti lo avrebbero fatto con ‘più stile’, e certo non stringendo i pugni con stupito entusiasmo? E allora?

Sulla questione della guerra Russia-Ucraina la Sinistra italiana la pensa allo stesso modo della Destra. Quando è al governo, su molti e decisivi temi prende le stesse decisioni e compie le stesse azioni della Destra, ma lo fa – crede di farlo – con più stile. E  per questo – per il suo stile – si ritiene legittimata a giudicare. Si rifugia nell’estetica per distinguersi. Come ha sempre fatto l’élite liberale progressista.

Ma quale stile, poi? (Ah, le questioni di stile.)

Gradite (e incomprese) eredità

Andare al governo significa ereditare un sistema di norme formali e norme informali. Le prime introdotte dall’azione dei governi precedenti, le seconde generate dall’evoluzione sociale. Sono le ‘condizioni iniziali’, dalle quali prende le mosse ogni nuovo governo, ogni transizione, ogni viaggio. C’è sempre un qui-ora all’origine di un progetto politico. E chi vince le elezioni e va al governo si propone di cambiare qualcosa di ciò che ha ereditato: cambiare le norme formali che meno corrispondono alla sua visione, ma anche orientare l’evoluzione culturale nella direzione che corrisponde ai suoi valori.

La Destra ora al governo in Italia ha ereditato l’ordinamento del mercato del lavoro e del sistema sanitario nazionale; ha ereditato l’ordinamento organizzativo dell’istruzione superiore e dell’università. Ha anche ereditato l’ordinamento giuridico-istituzionale che regola lo sviluppo spaziale delle città e del territorio e quello che regola il sistema finanziario (e bancario). Ha ereditato, inoltre, l’ordinamento del sistema pensionistico – e molto, molto altro.  Ha ereditato il capitalismo come plasmato in molte delle sue fondamentali sfere dalle politiche della Sinistra italiana, attuate dal 2011 al 2022.  E in nessuna di queste sfere – che sono sfere fondamentali per definire il modello di capitalismo – la Destra propone ora dei cambiamenti.

Un’eredità gradita e certo felice di doverla, ora, solo manutenere quella che la Destra ha ricevuto dalla Sinistra. E capisci, se hai voglia di capire, che cosa è diventata la Sinistra italiana dopo la sua metamorfosi iniziata nel 1989. Che cosa è diventata – e non che cosa era diventata – perché la Sinistra di oggi è identica alla Sinistra di ieri, sconfitta alle elezioni del settembre 2022: stesso programma, stesso sentimento.

La Destra non ha però capito che ciòche ha ereditato dalla Sinistra è un sistema fallimentare: se quel sistema non avesse fallito non sarebbe ora al Governo. Ma non lo capirà, perché la sua relazione con il capitalismo è ideologica, non politica. Come lo è stata – e ancora lo è – quella della Sinistra italiana anche dopo il 1989.

(Per emendare il capitalismo italiano dai suoi difetti la Destra sembra ora credere che basti l’introduzione della ‘flat tax’ – e progetta di farlo. E non ti lascia scelta tra il riso o il pianto.)

 

 

Gridi di guerra

 

Ma occorre un atto di volontà per andare in cerca della sofferenza altrui.

— Susan Sontag, On Photography (1971)

 

Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si libera della questione del ‘salario minimo’ affermando che la sua introduzione “non la convince”. Certo, avrebbe dovuto dire perché “non la convince”, ma non serviva. La Sinistra moderata e radicale non ha chiarito perché lo vuole introdurre: non ha esplicitato – e apertamente valutato – la configurazione di effetti che comporterebbe sul benessere dei salariati e sull’organizzazione delle imprese. E lei non ha bisogno di contro-argomentare. L’élite intellettuale e politica della Sinistra non l’ha messa di fronte a delle ragioni per farlo, costringendola a discuterle. Rituali gridi di guerra, nessun pensiero.

Dalla metà degli anni Novanta fino al Jobs Act,la Sinistra italiana ha pazientemente e con coerenza de-costruito il mercato del lavoro. Modificando i suoi fondamenti giuridici, ha re-introdotto una drammatica asimmetria di potere nella negoziazione tra chi offre e chi domanda lavoro. E ha reso possibile che il lavoro potesse essere negoziato ‘ad ore’. Naturalmente, ha modificato solo una parte del mercato del lavoro, quello ‘degli altri’. Ma di questo ho già parlato in un precedente post.

Il salario orario minimo non riduce la precarietà radicale delle relazioni di lavoro, il carattere più spietato del mercato del lavoro competitivo, organizzato come teorizzato dall’élite intellettuale e realizzato dall’élite politica della Sinistra in Italia. (Mentre lavori non sai se lavorerai e quanto lavorerai domani: devi almeno provare ad immaginare come ci si sente, anche se in quella condizione non sei mai stato.) Il salario orario minimo non riduce, se non in misura irrilevante, neppure la possibilità che il lavoro che una persona riesce a ‘vendere’ assicuri un salario ‘di sussistenza’, a se stesso o alla sua famiglia. Non cambia in nulla le condizioni di indigenza e disagio economico nelle quali si trovano in Italia alcuni milioni di persone.

La Sinistra in Italia, qui-ora, dovrebbe rinunciare all’ipocrita proposta del salario orario minimo, e prendersi il tempo per farci capire se e come intende ri-organizzare il mercato del lavoro italiano quando andrà al governo. Come pensa di rendere il suo funzionamento coerente con i principi costitutivi della democrazia. Ma non lo farà. Si è dimenticata che è nata ancorando la sua azione a uno ‘sguardo etico’ sul capitalismo – uno sguardo liberato dalla retorica mercatista, che vede equilibri dove c’è solo sofferenza. La sofferenza altrui, naturalmente.

Le barricate

Le ‘barricate’ si fanno per difendersi, per difendere uno spazio fisico o metafisico, una costituzione, un sistema di norme formali, per difendere delle idee. Per difendere qualcosa che c’è.

Il salario orario minimo in Italia non c’è, e mi sfugge cosa possa significare affermare che su quel tema il Partito democratico “farà le barricate”. Il Partito democratico è stato costantemente al governo dal 2011 al 2022 – tranne una breve parentesi (Governo Conte I ) – e mi sfugge anche il motivo per cui il salario minimo non lo abbia introdotto in tutti questi anni. Naturalmente, ora ha cambiato idea. Ma perché l’ha cambiata? Cosa vede ora di socialmente benefico che prima non vedeva in un vincolo normativo sulla contrattazione di mercato del valore orario del lavoro?

La discussione sul salario orario minimo che l’élite intellettuale e politica della Sinistra italiana sta conducendo mo sembra penosa. L’unica cosa che conta nella vita delle famiglie è avere un reddito da lavoro che assicuri il raggiungimento dei minimi esistenziali e che non vi sia un solo giorno di incertezza sul non raggiungerli. Il lavoro non si può contrattare ‘a ore’, perché la vita non si organizza ‘a ore’.

E comunque, tutti coloro che discettano sul salario orario minimo hanno contratti di lavoro ‘a vita’ e salari molto, molto al di sopra della sussistenza (comunque definita). E neanche immaginano cosa significhi correre all’Ufficio postale in tempo e mettersi in fila per cambiare in moneta il voucher che hai ricevuto in cambio di qualche ora di lavoro. Ma promettono ‘barricate’.

Che storia!

Imparare a vedere

Sono in molti, mi sembra, ad affermare di non vedere una contraddizione tra l’inviare armi all’Ucraina e l’obiettivo di fermare la guerra. E credono – sembra che credano – che il non vederla equivalga al fatto che non ci sia. Ma nel tempo, crescendo e poi invecchiando, abbiamo tutti imparato a capire che c’erano cose che non vedevamo perché non eravamo in grado di vederle. C’erano, eccome, ma non le vedevamo.

Quello che vedo, quando guardo

Il mio precedente post – Il mercato del lavoro degli altri – è stato ri-pubblicato, come parte di un post di Stefano Cardini,  sul portale del Phenomenology Lab (Università Vita-Salute San Raffaele) diretto da Roberta De Monticelli.

Il post è stato commentato dalla De Monticelli – commento al quale sia io che Stefano Cardini abbiamo replicato.

Qui sotto trovate la mia replica – ma potete seguire la discussione direttamente sul portale del Phenomenology Lab.

(Nel mio post precedente ho usato il termine ‘mercato’ come sinonimo di ‘mercato competitivo’ – che è l’uso corrente. Gli economisti – almeno quelli che hanno studiato Karl Polanyi – distinguono accuratamente tra ‘mercato’ e ‘mercato competitivo’; ne parlerò in un prossimo post, perché mi accorgo che è fonte di equivoci.)

 

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“Il mio mestiere non è riflettere sui dilemmi filosofici del pensiero liberale, bensì sui caratteri concreti – contingenti – dell’organizzazione economica, del capitalismo. L’economia come scienza sociale nasce con Adam Smith che fissa nel suo statuto disciplinare lo ‘sguardo etico’. Uno sguardo che è lo stesso sguardo di Alexis de Tocqueville mentre visita Manchester al culmine della Rivoluzione industriale – negli stessi mesi in cui lo fa Friedrich Engels, inconsapevoli l’uno dell’altro. E vacillano i suoi principi liberali difronte a ciò che vede. Lo sguardo etico dell’economia che Smith consolida e raffina non crea imbarazzi a John Stuart Mill, perché il suo liberalismo, per quanto elitario, già inclina al sociale, e crede nella capacità della democrazia di regolare il capitalismo. Il seguito lo sappiano: abbandonare lo sguardo etico – come suggerisce Hayek – o smettere di guardare, perché la perfezione del capitalismo la puoi kantianamente dimostrare rimanendo seduto sulla poltrona filosofica, come suggerisce la ‘scolastica economica’? Questo è il dilemma dei liberali (filosofico? morale? politico?).

Ciò che io vedo, guardando con i miei occhi, all’occorrenza attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, è la materializzazione di ciò che racconta l’evidenza empirica che l’Istat – e molti altri centri di ricerca – mette quotidianamente sul tavolo (o sullo schermo) di chiunque sia interessato: una catastrofe sociale e morale. E ciò che vedo mi fa dire che un capitalismo così – il capitalismo che la Sinistra italiana ha costruito con le sue mani dopo il 1989 – la democrazia italiana non lo regge.

E seguo Raymond Geuss (Not Thinking like a Liberal, The Belknap Press, 2022) nel pensare che l’intersezione tra democrazia, liberalismo e capitalismo che si presenta come una “anti-ideology par excellence” sia, in effetti, una “total ideology”. Alla quale ha aderito, perdendosi, l’élite intellettuale e politica della Sinistra italiana.

Il mercato del lavoro degli altri

1.

Escluso l’intermezzo del Governo Conte I (giugno 2018-agosto 2019), il Partito Democratico è stato costantemente al Governo dal 2013. Ha promosso il Jobs Act – la più recente delle forzature mercatiste che via via hanno trasformato le relazioni di lavoro in Italia dagli anni Novanta –, poi approvato nel 2015 durante il Governo Renzi. Ma per sette anni – lunghi e dolorosi per chi ha subito le conseguenze della legislazione introdotta con il Jobs Act – lo ha difeso.

Il Movimento 5 Stelle è stato costantemente al Governo dal 2018 – in una posizione dominante in Parlamento. Dal settembre 2019 al gennaio 2021 (Governo Conte II) lo è stato insieme al Partito Democratico. Non ha mai sollevato il tema del cambiamento dei fondamenti giuridici delle relazioni di lavoro – o proposto l’abolizione del Jobs Act.

La Sinistra italiana ha iniziato a modificare la legislazione sulle relazioni di lavoro in senso mercatista a metà degli anni Novanta, con il Governo Prodi. Ora si dovrebbe rivedere l’intera legislazione sulle relazioni di lavoro – e non solo abolire il Jobs Act. Ma nessuna coalizione, movimento o partito – e certo non il Partito democratico – ha intenzione di riaprire uno dei capitoli fondamentali della crisi sociale e morale dell’Italia: la spietata legislazione delle relazioni di lavoro.

 

2.

La maggior parte di chi ha un lavoro oggi in Italia “non sta sul mercato del lavoro”. Non ci sta l’élite politica, giornalistica e accademica che governa la legislazione del mercato del lavoro, che partecipa e segna il dibattito pubblico su questo tema. Non ci sono anche i magistrati e i professori universitari, la burocrazia nazionale e locale, gli insegnanti, molti occupati nei servizi, nella manifattura e nell’agricoltura. Ed è giusto che sia così. Perché il lavoro non è una merce e non può essere scambiato sul mercato. E dopo la Seconda guerra mondiale – dopo i drammi del “secolo degli estremi” (Eric Hobsbawm) – il ‘mercato del lavoro’ era stato lentamente cancellato come dispositivo che governa le relazioni di lavoro – mentre si consolidava il ‘capitalismo sociale’. Sostituito dalla contrattazione collettiva, che fissa salario e condizioni di lavoro – sulla base dei quali ogni persona presta il proprio lavoro. Giusto così – ma, allora, nessuno dovrebbe essere costretto a stare sul mercato d lavoro.

Dopo il 1989, in Italia l’élite intellettuale e politica della Sinistra ha iniziato a credere negli effetti benefici di mettere sul mercato del lavoro, settore per settore, un sottoinsieme sempre più numeroso di lavoratori. Cambiamento normativo dopo cambiamento normativo, ha fatto aumentare il numero di persone costrette ad andare sul mercato del lavoro per sopravvivere – letteralmente sopravvivere. Ma sono “gli altri” ad essere stati scaraventati sul mercato del lavoro, costretti a lavorare in condizioni di incertezza esistenziale ed economica che già all’inizio dell’Ottocento apparivano inaccettabili.

Il mercato del lavoro di cui parlano i leader politici e i disorganici intellettuali della Sinistra italiana è il mercato del lavoro “degli altri”. “Gli altri” devono stare sul mercato del lavoro.

 

Il capitalismo italiano finirà male

Ascolti un leader di partito – uno qualsiasi dei tanti che lo fanno – scagliarsi contro misure di redistribuzione della ricchezza finanziaria e reale nell’Italia di oggi – un Paese con uno stock di ricchezza privata strabiliante, fuori scala secondo qualsiasi criterio di sostenibilità economica. Ascolti il giornalista – uno dei tanti che lo fanno – che, ugualmente, si scaglia – perché lui è un ‘liberale’ – contro l’idea stessa che in un’economia capitalistica lo Stato possa dare una misura equa alla distribuzione della ricchezza. Senti definire “invidia sociale” la motivazione che sarebbe all’origine del progetto di rendere più equa la distribuzione della ricchezza. Con molta frequenza, in queste settimane di campagna elettorale, ascolti e leggi di riflessioni che interpretano la ricchezza privata – la ‘proprietà’ – in un’economia capitalistica come intoccabile.

Ma da dove viene questa idea, proposta come una verità, come indiscutibile? Certo, non dagli scienziati sociali – filosofi, economisti, sociologi, antropologi –, universalmente considerati i maggiori interpreti del capitalismo dalla fine del Settecento fino ai nostri giorni. Molti di essi liberali per convinzione e generale acclamazione.

Certo, questa sacralità della ricchezza privata non ha origine nel pensiero di Adam Smith, che ci ha insegnato in cosa consiste ‘lo sguardo etico sul capitalismo’. Certo, non in John Stuart Mill, che ha intrecciato per sempre etica, economia, politica. Certo, non in Karl Marx che, come in tutta la riflessione economica che lo ha preceduto, identificava il capitalismo nella sua capacità di generare investimento reale – nella sua capacità di accumulazione di macchinari e conoscenza (non di ricchezza privata). Certo, non in John M. Keynes, che del detentore di ricchezza presagiva l’eutanasia. Certo, non in Joseph A. Schumpeter … Certo, non in John Rawls, che riprende il filo del discorso della relazione tra democrazia e capitalismo ancorandolo alla giustizia distributiva. Si potrebbe continuare a lungo, molto a lungo, richiamando le profonde e autorevoli riflessioni sul capitalismo e sulla sua relazione con la democrazia liberale che si sono susseguite, e che non giustificano in nessun modo lo stock di ricchezza privata e la sua distribuzione che si ha oggi in Italia.

I veri (e incosapevoli) anticapitalisti in Italia sono gli intellettuali e i politici che hanno trasformato in un tabù la redistribuzione della ricchezza privata – praticamente tutti i partiti e movimenti che hanno un minimo (minimo) di seguito (e i loro disorganici intelettuali). Che non hanno idea di cosa sia e come funzioni il modello di economia che governano. Il capitalismo italiano finirà male.