Categoria: Economia

Lo stato atomico

Per chi appartiene alla mia generazione – e per chi fa il mestiere dell’intellettuale (pochi o tanti che siano, quando scrive o parla, a leggerlo o ad ascoltarlo, per interesse, necessità, abitudine – ci sarebbero molti libri da rileggere (o forse da leggere per la prima volta se li si è mancati). Sono libri – e sono tanti – che solo a ricordarli smentiscono ogni alibi sul perché la crisi ecologica “non l’abbiamo vista arrivare”. Ed è una fortuna che le nuove generazioni, nate molti decenni dopo che sono stati scritti, non li conoscano. Si è smesso da tempo di leggerli, di parlarne, di ristamparli – si trovano, quando si trovano, tra i libri ‘vintage’. Una fortuna per l’élite intellettuale della mia generazione, perché sarebbe guardata con ancora maggiore sfiducia (e rabbia) dalle nuove generazioni.

Mentre a Dubai va in scena la COP28, alla notizia dell’entusiasmo che trasudava per il ritorno alla ‘via nucleare’ per realizzare la transizione ecologica, non sono riuscito a bloccare il riflesso di prendere dallo scaffale un libro che ha segnato la storia politico-culturale degli anni Settanta. Lo stato atomico di Robert Jungk, che la casa editrice Einaudi pubblica nel 1978 nella collana “Saggi”, era apparso l’anno precedente in Germania. E sarebbe stato poi tradotto in molte lingue. Ebbe un impatto enorme nel rafforzamento del movimento anti-nucleare e della critica al modello economico che si stava consolidando, con il suo insostenibile bisogno di energia.

Nel 1972 erano stati pubblicati Il cerchio da chiudere di Barry Commoner e I limiti alla crescita del club di Roma, e nel 1976 Energia e miti economici di Nicholas Georgescu-Roegen e I limiti sociali della crescita di Fred Hirsch – tradotti in Italia pochi anni dopo. E sono solo alcuni dei libri di grande notorietà mondiale che andranno a formare la costellazione di riflessioni che negli anni Settanta stavano ridefinendo il paradigma della sostenibilità economica e sociale del processo economico. In questa costellazione, Lo stato atomico occupa uno spazio speciale: l’interconnessione tra usi militari e usi pacifici dell’energia nucleare, da una parte, e la forza del mito della crescita economica senza limiti, dall’altra, stava sviando l’attenzione dalle drammatiche conseguenze della “via nucleare”, che era una via da non percorrere. “… gli studi sulle conseguenze sociali e politiche dell’energia nucleare sono rimasti arretrati rispetto a quelli che si occupano degli effetti biologici ed ecologici.” (p. 4). E di questo il libo parlava, aprendo lo sguardo su uno scenario drammatico.

Dopo quello che accadde il 26 aprile 1986 – l’esplosione di un reattore nella centrale atomica di Chernobyl (Ucraina) – il libro di Jungk poteva essere interpretato come una nefasta profezia. La “via dura” – la via dell’energia nucleare per alimentare la traiettoria di crescita economica ‘illimitata’ – viene messa in discussione in molti paesi, e inizia un periodo di incertezza sul modello energetico verso il quale muoversi. La “via morbida” – quella dell’energia da fonti rinnovabili, dell’efficienza nell’uso dell’energia nei processi di produzione e consumo, del decentramento della produzione di energia – inizia a farsi strada, fino a diventare la via più condivisa.

Ora esplode senza remore l’entusiasmo per l’energia nucleare, cresciuto lentamente sottotraccia nell’ultimo decennio. Piuttosto che rompere il tabù della crescita illimitata come meta-obiettivo assoluto, tornato ovunque al centro dell’agenda politica ed economica come conseguenza della globalizzazione e della competizione economica tra stati, si decide di tornare alla “via dura” – all’energia nucleare – per realizzare la transizione ecologica senza cambiare i modelli di consumo. Ma per proporlo si doveva dimenticare – e far dimenticare – quello che negli anni Settanta e Ottanta si era capito, quello che Robert Jungk, assieme a molti altri, ci aveva fatto capire: è una strada senza uscita quella che si vuole tornare a percorrere.

Ma gli altri, gli altri dove sono?

Entusiasmo generale mentre il Governo Conte II e il Governo Draghi elaboravano il Pnrr. Avrebbe riportato l’economia italiana sul sentiero della crescita economica, smarrito molti anni prima. E sarebbe stato un sentiero di crescita sostenibile ed equa.  L’irripetibile – e insperata – opportunità che l’Unione europea offriva, l’Italia non avrebbe sprecata. Ma le cose stavano diversamente, ammoniscono, ora, Tito Boeri e Roberto Perotti: c’era solo l’esaltazione acritica dei suoi effetti all’origine di una valutazione tanto positiva del Pnrr. L’entusiasmo era infondato, ora come allora.

Che fosse un entusiasmo infondato non era difficile capirlo, già mentre il Pnrr prendeva forma, mentre era in corso di elaborazione. Ciò che era così facile da vedere, sin dall’inizio, non l’ha visto il Governo Conte II e non l’ha visto il Governo Draghi – e certo non per le ragioni che Boeri e Perotti suggeriscono, ­­­ come ho provato a dire nel mio precedente post. Ma non l’hanno visto, pèerò, neppure gli intellettuali che appartengono alla tecnostruttura giornalistico-accademica che in Italia guida il dibattito pubblico. Non solo non hanno visto ciò che era facile vedere, ma hanno visto quello che non c’era, e si sono distinti nell’esaltazione acritica del Pnrr, che ha raggiunto la sua acme durante il Governo Draghi, una tecnocrazia che ritenevano salvifica.

Le politiche pubbliche nascono da una mente collettiva, della quale gli intellettuali che sono nelle condizioni di esprimersi attraverso i dispositivi del giornalismo e della comunicazione sociale costituiscono una componente fondamentale in una democrazia. E dietro le carenze del Pnrr c’è un fallimento intellettuale prima che politico. Il processo decisionale è rimasto impigliato nell’uso improprio dell’economia che ne ha fatto la tecnostruttura giornalistico-accademica, nel suo scientismo diventato strumento di legittimazione della propaganda dei governi.

Ci sarebbe stato bisogno di una mobilitazione intellettuale, per mettere in discussione il paradigma mercatista, che era all’origine dell’impostazione del Pnrr – e di molte altre politiche pubbliche degli ultimi decenni. Per dimostrare il carattere pseudo-scientifico della razionalità sociale del Pnrr. Ma anche per falsificare le ipotesi con le quali si giustificava la razionalità sociale del “Super bonus edilizio 110%” – una politica pubblica ‘folle’ da ogni punto di vista (economico, etico e ambientale) e che gli stessi Boeri e Perotti, nel loro libro, definiscono, con scherno, “un unicum planetario” (p. 126). Solo mettendo in discussione il paradigma teorico con cui le principali culture politiche sono giunte a leggere il capitalismo italiano si poteva capire, ad esempio, che il modello statistico-economico con il quale si prevedevano i mirabolanti effetti sull’economia italiana del Pnrr era una ‘macchina immaginaria’, che il Pnrr era uno strumento per dare un altro giro di vite per consolidare il modello del capitalismo sovrano, o che avrebbe bloccato per anni la tipologia degli investimenti pubblici da realizzare. Far affiorare nel dibattito pubblico i veri obiettivi del Pnrr, liberandosi dallo scientismo che ne impediva una valutazione collettiva.

Il principale problema della democrazia italiana sta nei caratteri del dibattito pubblico. Nei caratteri della tecnostruttura giornalistico-accademica che lo organizza, gli dà forma, lo domina. Ma gli altri, gli intellettuali pubblici che a quella tecnostruttura non appartengono, che rifiutano lo scientismo, che credono nella democrazia, che sanno distinguere tra scienza e ideologia dov’erano? Dove sono?

È stata solo propaganda

Le politiche pubbliche sono ‘pensiero’, il prodotto di una ‘mente collettiva’. Certo, per farne la genesi si può iniziare soffermandosi su come ‘pensano i governi’. La costruzione di una politica pubblica avviene però (quasi) sempre sullo sfondo di un dibattito pubblico, e poi di un dibattito parlamentare (quando il parlamento la deve approvare). Per numerose politiche entra in gioco l’interazione con la Commissione europea. E così è stato per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), nato dal ‘pensiero’ di una complessa ‘mente collettiva’.

Raccontare la genesi del Pnrr è un tema importante e impegnativo, Significa fare il racconto di un disastro intellettuale e politico: del naufragio della Sinistra italiana, portata fuori strada dai suoi dis-organici intellettuali. Ed è un tema che Tito Boeri e Roberto Perotti svolgono, nel loro recente libro (Pnrr. La grande abbuffata, Feltrinelli, 2023). Del Pnrr danno, ora, un giudizio profondamente negativo. Però, tutte le ragioni per darne questo giudizio erano già palesi mentre il Governo Conte II e il Governo Draghi formulavano e poi approvavano il Piano. E scriverci un libro ora serve soltanto a suggerire una domanda: perché quete ragioni non sono emerse prima? Perché non sono emerse in tempo nel dibattito pubblico?

Affermare che un governo, impegnato a formulare una politica considerata decisiva per il futuro dell’Italia, degli effetti di quella politica ha fatto una “esaltazione acritica” indicava la strada da seguire. Ma gli Autori ne prendono una diversa “… sarebbe politicamente e umanamente irrealistico pensare che un governo impegnato nello scrivere e realizzare il Piano potesse propugnare una narrazione diversa …” (p. 20). Ora, le motivazioni politiche per ricorrere a una “esaltazione acritica” di una politica pubblica da parte di chi la propone si chiamano propaganda. (Le motivazioni umane non ho capito che rilievo possano avere in questo contesto: bisogno di ammirazione e auto-compiacimento infondato sono patologie gravi per un politico.) L’esaltazione acritica degli effetti del Pnrr non si è manifestata soltanto in approssimativi dibattiti televisivi o in enfatici interventi parlamentari. E’ emersa anche in innumerevoli interventi che provenivano dal milieu giornalistico-accademico liberale, che hanno segnato il dibattito pubblico. Si è manifestata anche nello stesso Documento di piano, con un capitolo finale nel quale gli inverosimili effetti positivi sull’economia italiana del Pnrr – con uno scientismo esasperato – emergevano dal ‘solito’ modello statistico-economico (che nessuno ha messo in discussione).

È stata solo propaganda, ma per spiegare le deficienze del Pnrr gli Autori del libro chiamano in causa l’inesperienza – che poi è una forma debole dell’incompetenza. Un Pnrr sbagliato sarebbe allora figlio di “un governo inesperto ed esposto a sollecitazioni di tutti i tipi”, incapace di “moderare l’appetito e di non farsi prendere dall’ingordigia.” (p. 31). Ed è del Governo Conte II che stanno parlando – commettendo due errori, di natura diversa. Ma nella sua versione definitiva, il Pnrr è stato approvato dal Governo Draghi, che ne porta quindi la responsabilità politica e tecnica. E chiamare in causa l’inesperienza (e incompetenza) dei due Governi nella formulazione del Pnrr non ha proprio senso farlo.

Nel Governo Conte II Roberto Gualtieri era alla guida del Ministero dell’Economia e delle Finanze, organizzazione di cui fanno parte apparati burocratici come il Dipartimento del Tesoro e la Ragioneria dello Stato (e molti altri Dipartimenti, Agenzie e Comitati di esperti, in questo e altri Ministeri) che è assurdo rappresentare come ‘inesperti e ‘incompetenti’. E certo neppure il Ministro stesso poteva essere considerato ‘inesperto’. Nel Governo Draghi, un’acclamata e salvifica tecnocrazia nella vulgata generale, a guidare il Ministero dell’Economia e delle Finanze era Daniele Franco – già Direttore Generale della Banca d’Italia, già a capo della Ragioneria dello Stato (e molto altro): il massimo dell’esperienza (e della competenza) che si possa immaginare per la costruzione del Pnrr.

No, la genesi del Pnrr dell’Italia è tutta un’altra storia.

Ah, il Pnrr!

Stavo ascoltando “Zapping”, la storica trasmissione serale di Rai Radio 1. Sento l’invitato, un noto intellettuale pubblico (economista), affermare che nel concedere così tanti prestiti all’Italia nell’ambito del Pnrr la Commissione Europea si era forse “un po’ approfittata … dell’inesperienza del Governo Conte II, e anche del fatto che ambiva a mettersi una medaglia al petto … la Commissione aveva creato il fondo NextGenerationEU, il famoso fondo di 750 miliardi di Euro, ed era alla disperata ricerca di clienti, perché l’ultima cosa che voleva era che non andasse speso tutto e non le è parso vero … che l’Italia dicesse sì, vogliamo prendere a prestito il massimo possibile.” (“Zapping”, 7 novembre 2023).

Chi parlava era Roberto Perotti, invitato per presentare il libro appena pubblicato scritto insieme a un altro altrettanto noto intellettuale pubblico (economista), Tito Boeri: PNRR. La grande abbuffata (Feltrinelli, 2023). Rispondeva a una domanda precisa, giornalisticamente perfetta, del conduttore, Giancarlo Loquenzi, che gli chiedeva conto della tesi centrale del libro: perché l’Italia ha preso a prestito così tante risorse finanziarie, considerate le profonde conseguenze negative nel medio-lungo periodo sull’economia italiana? Se era così facile ‘vedere’ le conseguenze negative, come si afferma nel libro, perché il Governo italiano ha chiesto e la Commissione europea accettato di concedere un ammontare ‘eccessivo’ di prestiti?

Era una risposta senza senso quella che Perotti stava dando, e il conduttore sembrava perplesso. Sì, una risposta senza senso. L’approvazione del Pnrr, nella sua versione definitiva avvenuta nel luglio 2022, non è stata opera del Governo Conte II bensì del Governo Draghi – una tecnocrazia osannata nel dibattito pubblico come la massima manifestazione della competenza e dell’esperienza al servizio del Paese e del rigore logico e morale delle sue decisioni. E il Governo Draghi aveva il potere e le competenze per modificare radicalmente l’impostazione che il Governo Conte II aveva dato al Pnrr. Dire, poi, che la Commissione europea tratta come clienti i Paesi membri dell’Unione, neanche il più acceso anti-europeista avrebbe avuto l’ardire di affermarlo – clienti ai quali vende prodotti (debito pubblico, in questo caso) che sa essere letali – e se non lo sa è ancora peggio – per le condizioni in cui si trova il cliente (l’Italia, con il suo enorme debito pubblico).

Sul Pnrr ho le mie idee: credo sia stato l’esito di un fallimento – il naufragio cognitivo, morale e politico della Sinistra e della tecnostruttura giornalistico-accademica neoliberale con la quale si è saldata dagli anni Novanta. Le avevo presentate in tre video seminari che ho tenuto tra maggio e giugno 2021. L’avevo poi fatto con un breve saggio (La Sinistra italiana e il PNRR) pubblicato sul portale della “Casa della Cultura” di Milano nel luglio 2021. Al tema ho infine dedicato l’ultimo capitolo del libro L’uso dell’economia. La Sinistra italiana e il capitalismo (1989-2022). Ed è sullo sfondo di questo mio interesse che, dopo aver ascoltato la trasmissione “Zapping” – il giorno dopo –, sono corso alla libreria Feltrinelli di Ancona ad acquistare il libro di Tito Boeri e Roberto Perotti. Che, da ciò che stavo ascoltando, prometteva di essere un altro capitolo della surreale retorica che sin dall’inizio ha distorto il dibattito pubblico sulla costruzione e attuazione del Pnrr.

E ora, con il libro sul tavolo, mentre lo leggo, mi sembra che siamo arrivati alla fine di questa sconcertante storia intellettuale.

 

 

L’Europa e la Nigeria (o dell’illusione di vincere)

Qualche mese fa Olaf Scholz, l’attuale Primo ministro della Germania, ha rilasciato una lunga e impegnativa intervista a “Die Zeit”[i] sugli obiettivi del suo Governo e sugli strumenti per raggiungerli. Mi aveva suscitato un perplesso interesse, e di recente mi è ritornata in mente nel leggere una riflessione sulla storia (e il futuro) della Nigeria[ii]. Mi è ritornata in mente insieme all’ultimo saggio che Giacomo Becattini ha pubblicato in vita[iii] ­– un saggio che avrebbe dovuto attrarre molta più attenzione.

Nell’intervista di Scholz, alla guida della più grande economia dell’Unione europea, il tema centrale era la crescita economica – l’aumento della scala della produzione in Germania. Annunciava (ma era una conferma) che la Germania si stava predisponendo ad accogliere un consistente flusso migratorio per accrescere la sua forza-lavoro, passo necessario per realizzare la traiettoria di crescita desiderata. E si apprestava, di conseguenza, a realizzare una consistente espansione del patrimonio abitativo. Nell’intervista non c’era traccia di una riflessione sulla relazione tra gli obiettivi che il Cancelliere tedesco annunciava e le traiettorie economiche, sociali e politiche del resto mondo.

Nel suo ultimo saggio Becattini aveva sollevato un tema di straordinaria rilevanza sullo sfondo del processo di globalizzazione che aveva a lungo studiato – certo, ispirato dalle vicende del distretto industriale di Prato. Un tema che alla scala globale era stato svolto con uno storico accordo transnazionale, con il quale è nata l’Unione europea: promuovere una distribuzione equa tra Paesi della produzione industriale e agricola. Per non lasciare completamente ai ‘mercati competitivi’ la scelta della localizzazione delle attività produttive. Prima che il Progetto europeo fosse de-costruito e guastato dall’ideologia neoliberale, la perequazione territoriale della produzione all’interno dei confini europei era uno dei suoi temi centrali.

Come tanti altri Paesi fuori dall’immaginario europeo, la Nigeria è inspiegabilmente sottovalutata – e certo non stava nei pensieri di Scholz mentre si lasciava intervistare. Ma basterebbe riflettere sul suo trend demografico (se proprio vogliamo continuare a non prendere seriamente la sua società) per capire che non ha senso farlo. La sua popolazione attuale è di 213 milioni, e secondo le proiezioni di United Nations Population Division sarà di 400 milioni nel 2050 e di 700 milioni nel 2100, quando diventerà il più popoloso Paese dopo India e Cina. E già oggi il 50% dei suoi abitanti ha un’età compresa tra zero e 17 anni. Nei prossimi 10-20 anni, in Nigeria ci sarà un’imponente quantità di forza-lavoro in cerca di un lavoro – che poi vuol dire un enorme numero di persone in cerca di un lavoro.

La Nigeria si appresta a diventare il caso più eclatante, ma sono molti i Paesi ‘non europei’ che contribuiranno a generare nei prossimi decenni, alla scala globale, una enorme forza-lavoro in cerca di un lavoro.

A questo punto della storia economica del mondo, la convinzione che si debba lasciare ai mercati competitivi le ‘decisioni’ sulla localizzazione della produzione credo appaia una follia a chiunque non abbia una mente prigioniera del paradigma mercatista. Vale a dire, a chiunque non appartenga all’élite politica e intellettuale che governa i Paesi europei.

Se quella che Becattini propone nel suo ultimo saggio è un’utopia, allora significa che in Europa dovremmo ri-cominciare a trasformare le utopie in progetto politico.

 

Testi citati

[i] Wie grün ist der Kanzler (intervista di Bernd Ulrich a Olaf Scholz), “Die Zeit”, N. 18/2023.

[ii] H.W. French, The Creation of Nigeria, “New York Review of Books”, 8 giugno 2023).

[iii] Becattini, G. (2015). La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale. Roma: Donzelli.

 

Fuori controllo

Nella deriva della Sinistra italiana, che inizia nel 2007 e si conclude con il naufragio alle elezioni del settembre 2022, l’introduzione del “Superbonus 110%” è stato un passaggio rivelatore. Perché solo un’organizzazione politica allo sbando, senza punti di riferimento intellettuali ed etici poteva sostenere una misura del genere. Una misura che violava anche il più blando principio di equità distributiva, anche il più approssimativo standard di razionalità sociale, anche la più elementare interpretazione degli effetti degli incentivi economici, anche il più flessibile dei vincoli di sostenibilità finanziaria – e persino la logica del più cinico dei calcoli politici (soltanto una frazione elettoralmente irrilevante di elettori ne riceveva un beneficio). Allo sbando la Sinistra ‘politica’ in tutta evidenza lo era – ma lo era anche la Sinistra ‘intellettuale’, ovvero la tecnostruttura giornalistico-accademica della Sinistra moderata e radicale. Difronte a una misura tanto imbarazzante sul piano tecnico, etico e politico, l’élite intellettuale della Sinistra avrebbe dovuto mobilitarsi per contrastarla, ma non lo ha fatto.

La tecnostruttura giornalistico-accademica neoliberale, che si è saldata con la Sinistra e mantiene da anni una completa egemonia culturale sull’interpretazione del capitalismo italiano, si era mobilitata durante il Governo Conte I (giugno 2018-settembre 2019) per mostrare l’incurabile incompetenza del M5S. Ma non si mobilita per mettere in evidenza l’incompetenza che la Sinistra ‘politica’ mostra approvando, in accordo con il M5S, la misura del “Superbonus edilizio 110%” durante il Governo Conte II (nato da uno spettacolare esercizio di trasformismo da parte dei movimenti e partiti che ne garantivano la maggioranza parlamentare).

L’evidenza della irrazionalità e immoralità di quel provvedimento affiora durante il Governo Draghi attraverso studi e indagini giornalistiche, per svanire rapidamente senza lasciare segni. Il Governo Draghi mostra di non avere alcuna autorità – né politica né tecnica – e non interviene per correggere una misura di politica economica che considera finanziariamente insostenibile. E lascia in eredità al Governo Meloni evitare che il “Superbonus edilizio 110%” trascini l’Italia in una crisi finanziaria.

La spesa per finanziare il “Superbonus edilizio 110%” è molto elevata. Le stime non sono né precise, né ufficiali – e già questo rende perplessi. Non dovrebbe comunque essere inferiore a 60-80 miliardi: ammontare superiore a quello delle ‘sovvenzioni’ previste dal PNRR per l’intero ciclo settennale del Bilancio europeo. Sul “Superbonus edilizio 110%” il Governo Conte II ha costruito una retorica della transizione ecologica (e della crescita economica). Sul PNRR il Governo Draghi ha costruito una retorica della rinascita nazionale. Quali fossero gli effetti reali di breve e lungo periodo di queste due politiche pubbliche non è mai stato un tema di dibattito pubblico. I Partiti e i Governi che le hanno proposte e approvate le hanno vendute come prodotti, falsificandone le caratteristiche.

Lo scientismo, con tutti i suoi modelli economico-statistici con i quali si crede di derivare gli effetti delle politiche pubbliche – scientismo nel quale la Sinistra italiana è scivolata quando ha scelto il paradigma mercatista come interpretazione del capitalismo –, non riesce più a nascondere che il bilancio pubblico italiano è ‘fuori controllo’, che la sua formazione non rispetta più il vincolo di razionalità sociale che ne legittima il carattere democratico.

Extra-profitti

Improvvisamente, nel dibattito pubblico italiano è entrato il termine ‘extra-profitti’, il nome dato al fenomeno di un rapido e notevole incremento dei profitti di imprese che operano nello stesso mercato. E si è cominciato a parlare degli extra-profitti delle case farmaceutiche, degli extra-profitti delle banche. E di recente il Governo italiano ha proposto di tassare proprio gli extra-profitti delle banche.

Per tassare gli extra-profitti si deve distinguere nel bilancio di un’impresa i profitti ‘normali’ da quelli ‘anormali’ – gli extra-profitti, appunto. Sugli extra-profitti si dovrà poi applicare un’aliquota specifica, che dovrà essere più elevata (molto più elevata) di quella vigente sui profitti ‘normali’. Sembra semplice farlo, ma non lo è affatto, e ne nascerà una controversia senza fine se il Governo conferma le intenzioni. Non è semplice perché nei bilanci delle imprese non c’è modo di distinguere la quota di profitto ‘normale’ da quella ‘anormale’ se non introducendo una valutazione etica, espressa poi come valutazione politica. Che poi dovrebbe diventare tassazione fortemente progressiva dei profitti.

La proposta ha creato sgomento tra i liberali di fede mercatista – tra i liberali-liberisti –, che non tollerano neppure il minimo accenno allo sguardo etico sul capitalismo, soprattutto quando è lo sguardo della democrazia che dovrebbe farsi etico. Temono che si diffonda l’opinione che sia legittimo il giudizio politico sugli esiti del mercato. Lo sgomento si sta trasformando in filosofeggianti obiezioni (fatte da chi non sa letteralmente di cosa parla quando parla di capitalismo), e si sta mobilitando la tecnostruttura giornalistico-accademica neoliberale per contrastare la decisione del Governo.

Sarà una storia da seguire, nelle prossime settimane – che certo non finirà come il Governo ha annunciato. Una storia che contiene, però, un’altra storia molto più significativa, che è in cerca di protagonisti. Prima di preoccuparsi dello sguardo etico della democrazia che si accende, i liberali-liberisti dovrebbero soffermarsi su un fatto, ancora più preoccupante dalla loro prospettiva: la simultanea e grande crescita dei profitti realizzati da tutte le banche ha evidenziato (si dovrebbe dire: confermato – e non era necessario) che quello dei servizi bancari e finanziari non è un mercato concorrenziale. Nessuna banca ha provato ad aumentare la propria quota di mercato con una politica dei prezzi dei suoi servizi diversa da quella delle altre banche. L’insieme delle banche si è comportato come un ‘cartello’.

Ora, chi ha la responsabilità politica dei fondamenti giuridici del sistema bancario e finanziario italiano? Chi ha la responsabilità del fatto che quello dei servizi bancari e finanziari non è, in virtù dei suoi fondamenti giuridici, un mercato competitivo? Che ne pensano gli intellettuali e i politici di fede liberal-liberista?

Sarà molto sfocato e incerto – e anche parziale – lo sguardo etico che il Governo getta ora sugli esiti del mercato – sul funzionamento del capitalismo italiano. Sarà solo propaganda alla quale non seguirà nulla di concreto. Sarà anche uno sguardo ipocrita perché, in realtà, è solo ricerca disperata di fondi per far quadrare il bilancio pubblico. Richiama, comunque, un tema di grande importanza, che segna la riflessione sul capitalismo sin dall’inizio dell’Ottocento, da quando si consolidano le democrazie liberali – e il non averlo svolto è una delle ragioni che ha condotto la Sinistra italiana al naufragio.

Adesso sì, si può dire ‘capitalismo’

Ascolto un autorevole intellettuale ‘di sinistra’ affermare in una trasmissione televisiva che, finalmente, nel Partito democratico si torna a usare la parola ‘capitalismo’. Gli sembra un decisivo passo avanti verso il rinnovamento della Sinistra in Italia. Non so che dire, sarà vero. Mi sembra comunque troppo tardi.

Parole che, però, mi hanno suscitato un ricordo. A Bologna, dieci anni fa, forse più, alla fine di una relazione che avevo tenuto in un seminario istituzionale – accanto a me sedevano i vertici degli amministratori della Sinistra dell’Emilia-Romagna – il moderatore mi rimprovera seccato: “Noi, qui, la parola capitalismo non la usiamo …”. In effetti, riferendomi all’economia della Germania avevo usato l’espressione “il capitalismo tedesco”, anche suggerendo che era una cosa molto diversa dal “capitalismo italiano”. Risposi che per un economista applicato la categoria ‘capitalismo’ è irrinunciabile, perché descrive caratteri profondi di molte economie – e apre la strada alla riflessione sulle varianti in cui il capitalismo si presenta in un dato tempo e in un dato luogo.

Non hanno mai avuto remore i liberali nell’usare il termine ‘capitalismo’, che nel 1830 in Francia, appena compiono la loro prima rivoluzione, con il capitalismo già consolidato devono convivere, persuasi che sia una modello di economia che serve la causa democratica, la loro causa. Nessuna paura di usare questo termine la mostra Martin Wolf nel suo recente libro – “The Crisis of Democratic Capitalism” (2023) – che sto leggendo in questi giorni. Per molti anni al vertice della redazione economica del “Financial Times”, commentatore di grande notorietà, Wolf scrive di un capitalismo che deve essere profondamente riformato – per salvare il capitalismo e la democrazia. (Non tutti i liberali tengono alla democrazia, ma molti sì.)

Se la Sinistra italiana – moderata e radicale – avesse scelto l’Agenda Wolf (come esposta in questo libro) piuttosto che l’Agenda Draghi avrebbe vinto le elezioni. Ma dal 1989 a oggi la Sinistra italiana ha seguito un percorso che l’ha portata a trovarsi molti chilometri più ‘a destra’ di un analista di riconosciuta competenza ed equilibrio del “Financial Times” – iconico quotidiano economico liberista, la cui redazione fermamente crede nel capitalismo come modello di economia ‘benedetto’. Ma, certamente, Wolf crede in una variante di capitalismo compatibile con la democrazia, e in un libro di oltre 450 pagine si impegna ad argomentare come riuscire a realizzarla – come ritrovare un equilibrio tra democrazia e capitalismo che, secondo la sua interpetazione, negli ultimi decenni si è perso, e che in una misura soddisfacente era stato raggiunto tra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino. (Certo, la redazione del “Financial Times” poteva accorgersi prima dove stava andando il capitalismo europeo, e dirlo. Ma questo è un altro discorso, da riprendere.)

Chissà, ora che si ritorna a utilizzare il termine ‘capitalismo’, gli intellettuali che hanno legittimato e guidato la metamorfosi della Sinistra italiana dopo il 1989 capiranno dove sono finiti – e dove hanno portato il Paese?

Un lavoro sicuro

Germania, 2023 – Manifesto della Deutsche Bahn (DB)

 

Il manifesto è costruito su una domanda che non ha bisogno di risposte: – “Per te, avere un lavoro sicuro è importante?”. Segue un suggerimento “Allora vieni a lavorare nel servizio di ristorazione dei nostri treni …”. È un lavoro sicuro, e sarà nuovo inizio.

Poi l’invito a fare domanda, attraverso il sito web dedicato – sottolineando ancora che quello offerto è un lavoro sicuro, ripetendo la domanda che ha già una risposta: “Che cosa è importante per te?

Tutti si meritano un lavoro, decente e senza l’incertezza della precarietà – se lo desiderano.

 

Gradite (e incomprese) eredità

Andare al governo significa ereditare un sistema di norme formali e norme informali. Le prime introdotte dall’azione dei governi precedenti, le seconde generate dall’evoluzione sociale. Sono le ‘condizioni iniziali’, dalle quali prende le mosse ogni nuovo governo, ogni transizione, ogni viaggio. C’è sempre un qui-ora all’origine di un progetto politico. E chi vince le elezioni e va al governo si propone di cambiare qualcosa di ciò che ha ereditato: cambiare le norme formali che meno corrispondono alla sua visione, ma anche orientare l’evoluzione culturale nella direzione che corrisponde ai suoi valori.

La Destra ora al governo in Italia ha ereditato l’ordinamento del mercato del lavoro e del sistema sanitario nazionale; ha ereditato l’ordinamento organizzativo dell’istruzione superiore e dell’università. Ha anche ereditato l’ordinamento giuridico-istituzionale che regola lo sviluppo spaziale delle città e del territorio e quello che regola il sistema finanziario (e bancario). Ha ereditato, inoltre, l’ordinamento del sistema pensionistico – e molto, molto altro.  Ha ereditato il capitalismo come plasmato in molte delle sue fondamentali sfere dalle politiche della Sinistra italiana, attuate dal 2011 al 2022.  E in nessuna di queste sfere – che sono sfere fondamentali per definire il modello di capitalismo – la Destra propone ora dei cambiamenti.

Un’eredità gradita e certo felice di doverla, ora, solo manutenere quella che la Destra ha ricevuto dalla Sinistra. E capisci, se hai voglia di capire, che cosa è diventata la Sinistra italiana dopo la sua metamorfosi iniziata nel 1989. Che cosa è diventata – e non che cosa era diventata – perché la Sinistra di oggi è identica alla Sinistra di ieri, sconfitta alle elezioni del settembre 2022: stesso programma, stesso sentimento.

La Destra non ha però capito che ciòche ha ereditato dalla Sinistra è un sistema fallimentare: se quel sistema non avesse fallito non sarebbe ora al Governo. Ma non lo capirà, perché la sua relazione con il capitalismo è ideologica, non politica. Come lo è stata – e ancora lo è – quella della Sinistra italiana anche dopo il 1989.

(Per emendare il capitalismo italiano dai suoi difetti la Destra sembra ora credere che basti l’introduzione della ‘flat tax’ – e progetta di farlo. E non ti lascia scelta tra il riso o il pianto.)