Categoria: Economia

Il capitalismo italiano finirà male

Ascolti un leader di partito – uno qualsiasi dei tanti che lo fanno – scagliarsi contro misure di redistribuzione della ricchezza finanziaria e reale nell’Italia di oggi – un Paese con uno stock di ricchezza privata strabiliante, fuori scala secondo qualsiasi criterio di sostenibilità economica. Ascolti il giornalista – uno dei tanti che lo fanno – che, ugualmente, si scaglia – perché lui è un ‘liberale’ – contro l’idea stessa che in un’economia capitalistica lo Stato possa dare una misura equa alla distribuzione della ricchezza. Senti definire “invidia sociale” la motivazione che sarebbe all’origine del progetto di rendere più equa la distribuzione della ricchezza. Con molta frequenza, in queste settimane di campagna elettorale, ascolti e leggi di riflessioni che interpretano la ricchezza privata – la ‘proprietà’ – in un’economia capitalistica come intoccabile.

Ma da dove viene questa idea, proposta come una verità, come indiscutibile? Certo, non dagli scienziati sociali – filosofi, economisti, sociologi, antropologi –, universalmente considerati i maggiori interpreti del capitalismo dalla fine del Settecento fino ai nostri giorni. Molti di essi liberali per convinzione e generale acclamazione.

Certo, questa sacralità della ricchezza privata non ha origine nel pensiero di Adam Smith che ci ha insegnato in cosa consiste ‘lo sguardo etico sul capitalismo’. Certo, non in John Stuart Mill, che ha intrecciato per sempre etica, economia, politica. Certo, non in Karl Marx che, come in tutta la riflessione economica che lo ha preceduto, identificava il capitalismo nella sua capacità di generare investimento reale – nella sua capacità di accumulazione di macchinari e conoscenza (non di ricchezza privata). Certo, non in John M. Keynes che del detentore di ricchezza presagiva l’eutanasia. Certo, non in Joseph A. Schumpeter… Certo, non in John Rawls, che riprende il filo del discorso della relazione tra democrazia e capitalismo ancorandolo alla giustizia distributiva. Si potrebbe continuare a lungo, molto a lungo richiamando le profonde e autorevoli riflessioni sul capitalismo e sulla sua relazione con la democrazia liberale che si sono susseguite, e che non giustificano in nessun modo lo stock di ricchezza privata e la sua distribuzione che si ha oggi in Italia.

I veri (e incosapevoli) anticapitalisti in Italia sono gli intellettuali e i politici che hanno trasformato in un tabù la redistribuzione della ricchezza privata – praticamente tutti i partiti e movimenti che hanno un minimo (minimo) di seguito (e i loro disorganici intelettuali). Che non hanno idea di cosa sia e come funzioni il modello di economia che governano. Il capitalismo italiano finirà male.

Lo sguardo etico dell’economia

 

Il mio ultimo post, che ho pubblicato prima dell’interruzione estiva, ha dietro una storia: ho dedicato gli ultimi otto mesi a scrivere un ‘libro’ sulla metamorfosi della Sinistra italiana (quella moderata e quella radicale, che sono oramai indistinguibili), dopo il 1989 – del suo naufragio, in definitiva. Libro che non ho ancora pubblicato. Nell’attesa di pubblicarlo riprendo il progetto “Dialoghi” – che avevo interrotto – ed espongo il contenuto del libro in tre incontri virtuali (Piattaforma Zoom), fissati per il 15, 22 e 29 settembre, 18:00-19:30).

Seguo un itinerario che parte dall’inizio, quando ‘democrazia’ e capitalismo’ si incontrano, nei primi decenni dell’Ottocento – quando l’economia, che non è quella diventata egemone dopo la caduta del Muro di Berlino, nasce come scienza sociale definendo uno ‘sguardo etico’ sul capitalismo’.

La partecipazione è libera e gratuita – ma l’iscrizione è necessaria.

Per chiunque sia interessato.

 

La Sinistra italiana e la transizione ecologica

Presentato come “Manifesto per la sinistra del futuro”, appare su “Il Foglio” un lungo articolo dal titolo “Liberiamo il Green deal dall’ideologia” (12 luglio 2022). Lo firmano due autorevoli esponenti del Partito Democratico – Andrea Orlando ed Enzo Amendola –, attualmente con ruoli importanti nel Governo Draghi. Non è paradossale che un “Manifesto per la sinistra del futuro” appaia su “Il Foglio”, un quotidiano con un ostentato quanto legittimo orientamento liberista (e reazionario); non lo è perché dagli anni Novanta il Partito Democratico ha un progetto liberista per la società Italiana. Poi, credere che il liberismo sia “di sinistra”, come crede l’élite intellettuale e politica del Partito Democratico, oppure credere che il liberismo sia “di destra”, come crede la Redazione de “Il Foglio”, non è una differenza rilevante. L’importante è essere liberisti, per riconoscersi.

Ma cosa c’è in questo ‘Manifesto?

Sarebbero “ottimi propositi” – secondo gli Autori – quelli dell’Unione Europea: “essere la capofila della transizione verde e di guidare la nuova rivoluzione industriale su scala globale.” Che si affrettano, poi, ad aggiungere: “…però serve un metodo politico imperniato su un riformismo sostenibile.

Sì, il “Manifesto per la sinistra del futuro” è scritto così, in una lingua contraffatta, frasi che non significano nulla. A un certo punto si legge della “improduttiva contrapposizione tra chi vuole tutto e subito, costi quel che costi, e l’approccio negazionista di chi resterebbe tranquillamente a guardare.” Io non so chi siano quelli che vogliono “tutto e subito, costi quel che costi”. Quello che so è che i prossimi dieci anni saranno decisivi per evitare conseguenze catastrofiche per la vita sulla Terra. Quello che so è quanto scritto nei Rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU (l’ultimo è stato pubblicato di recente) e in innumerevoli libri scientifici e divulgativi.

I tempi della transizione ecologica necessaria non sono un’opzione politica e non sono negoziabili. Già quelli stabiliti – stabiliti! – negli Accordi di Parigi del 2015 erano apparsi troppo lunghi – e l’Europa liberale e democratica che vuole essere “leader nel mondo” è in ritardo anche su quelli. E, comunque, quegli obiettivi sono ben poca cosa rispetto alla transizione ecologica che i Paesi europei dovrebbero compiere. La società europea ha una “impronta ecologica” oltre ogni soglia di sostenibilità ambientale e sociale, e di passi avanti per ridurla non ne ha fatti. Di cosa può essere capofila l’Unione Europea in questo campo, se non del progetto di distruzione della natura di cui lo è da quasi due secoli?

Gli Autori di questo sconcertante “Manifesto” fanno ancora un passo avanti nella direzione sbagliata: “Dobbiamo raggiungere gli obiettivi della decarbonizzazione, ma con l’ambizione di accrescere la competitività economico-industriale europea su scala globale, non di avviarci verso la deindustrializzazione dei nostri paesi.” Ad essi sfugge che la transizione ecologica è molto (molto!) di più della decarbonizzazione. Sfugge, inoltre, l’aspetto più importante – che il pensiero reazionario non riesce proprio a comprendere: la competizione economico-industriale su scala globale è precisamente il dispositivo che deve essere disattivato.

Insistono, inoltre, nel definire i giocatori di questa assurda partita: “… la competizione non è tra i 27 [Paesi membri dell’Unione europea] ma tra Europa e il resto del mondo.”. E, qui siamo al delirio: “Europa contro Resto del mondo”. Siamo alla narrazione che discende dal paradigma liberista nella sua declinazione reazionaria: la competizione avviene attraverso l’innovazione tecnologica, e l’innovazione tecnologica ridurrà l’impronta ecologica fino a rendere sostenibile il processo economico – permettendo allo stesso tempo di continuare lungo la traiettoria di crescita dell’intera società mondiale. Ma, mi domando, gli Autori hanno capito che la “crescita economica” come è stata concepita negli ultimi due secoli è un paradigma da abbandonare? Hanno capito quali sono i termini della ‘crisi ambientale globale’? Se lo ricordano il Rapporto delle Nazioni Unite Il nostro futuro comune, del 1987?

Nel suo più recente libro (Perché non basta dirsi democratici. Ecosocialismo e giustizia sociale. Guerini e Associati, 2022, Parte III) Achille Occhetto scopre l’importanza di mettere la questione ambientale in una posizione preminente nell’agenda della Sinistra italiana – lo scopre con 30 anni di ritardo. Andrea Orlando e Enzo Amendola, influenti esponenti politici della Sinistra di oggi, non hanno ancora capito cosa sia la questione ambientale globale, però ne scrivono nell’ideologica lingua del liberismo – una lingua che neanche conoscono bene. Questa sarebbe la Sinistra del futuro?

I sentieri che non trovi

Le case editrici che ricordano con tempestive fascette pubblicitarie che Federico Caffè è stato il ‘maestro’ di Mario Draghi danno per scontato il valore dell’azione di Mario Draghi – come Presidente del Consiglio, Presidente della Banca Centrale Europea, Governatore della Banca d’Italia e così via – e ne indicano le radici nel pensiero di Federico Caffè, e suggeriscono di leggere i suoi libri. Della relazione intellettuale tra Caffè e Draghi non mi permetto di dire nulla. Ho le mie idee in proposito, ma mi piacerebbe che ne scrivessero i molti economisti italiani che sono stati allievi e colleghi di Caffè, che lo hanno frequentato e che conoscono il suo pensiero. Io l’ho solo molto letto e molto apprezzato, e qualche volta ascoltato.

Federico Caffè è scomparso nel 1987, e negli anni successivi tanto è accaduto in Italia e tanto è accaduto in Europa. Ma cosa è accaduto nella sfera dell’interpretazione e della regolazione del capitalismo? Se si avesse – se lo si potesse avere – un passo lento, chi studia economia dovrebbe dedicare il tempo che serve a leggere gli scritti di Federico Caffè, per capire – capire più che valutare o giudicare. Certo, ora la Sinistra italiana – la tecnostruttura politico-giornalista-accademica che è diventata – ritiene che il liberismo sia di sinistra. Ma per dare un significato concreto a questa conversione, ciò che Caffè ha scritto sulla politica economica italiana negli anni Settanta e Ottanta sarebbe di particolare utilità. Lo sarebbe anche se si è d’accordo con l’affermazione secondo cui “il liberismo è di sinistra”, perché almeno si capirebbe cosa significa essere d’accordo con questa interpretazione del capitalismo.

Bisogna avere un passo lento per leggere i bellissimi saggi raccolti nel 1976 da Federico Caffè sotto il titolo Un’economia in ritardo. Contributi alla critica della recente politica economica italiana (Torino: Boringhieri). Devi darti il tempo per capire cosa è accaduto da quando l’Autore scrive, nel 1971, il saggio che compare come capitolo 1 del libro, dal titolo inequivocabile: “Economia di mercato e socializzazione delle sovrastrutture finanziarie”. Echi del Keynes ‘radicale’ in questo saggio, di un liberalismo che si fa ‘sociale’, capace di distinguere tra ciò che c’è e ciò che non c’è nel codice genetico del capitalismo.

Poi sono passati gli anni e i ‘mercati finanziari sono diventati, allo stesso tempo, l’archetipo dei mercati perfetti’ e il dispositivo che fa diventare ‘perfetto’ il capitalismo. E, addirittura, ne sarebbero il ‘motore’. Un’interpretazione che neanche la crisi finanziaria globale del 2007-200 – le sue drammatiche conseguenze e i suoi strascichi –  ha scalfito (di crisi finanziarie globali e locali ce ne erano state molte anche negli anni precedenti – ci sono  sempre state, in verità).

Rileggere Caffè aiuta a mettere in prospettiva il capitalismo italiano ed europeo, e a riflettere su come e perché sono cambiati i fondamenti istituzionali del capitalismo dopo il 1989. Scoprire chi li ha cambiati – così da poter chiedere di argomentare perché li ha cambiati. Comunque, mentre leggi i saggi di Caffè – per puro piacere intellettuale, non per altro –, non riesci a capire da dove parta il sentiero che conduce dal suo pensiero all’azione di Marco Draghi – ma attendi pazientemente che qualcuno te lo indichi. E non riesci a capire neppure da dove parta il sentiero che ha condotto a credere che il liberismo sia di sinistra.

 

Federico Caffè e i ‘costi sociali’

1.

Se volete capire “una volta per tutte cambi e valute” – come recita la fascetta aggiunta al libro (ne ho parlato nel post precedente) preparata distrattamente dalla redazione de “la Reppubblica” – non leggete il libro Lezioni di politica economica di Federico Caffè. Non vi servirebbe. Ci sono però molte altre buone ragioni per leggerlo e meditarlo, benché siano trascorsi più di 40 anni dalla pubblicazione della 1a edizione nel 1978.

Il capitolo terzo è certo il più importante.

A un certo punto, leggendolo, ci si imbatte in alcuni dati, tratti da uno studio empirico – dati che raccontano come nei primi due decenni del dopoguerra vi fossero stati 82.557 morti sul lavoro e 996.000 lavoratori resi permanentemente invalidi (“il doppio degli invalidi delle due grandi guerre mondiali messi assieme.”). Nel riportarli in un testo di introduzione alla politica economica Caffè svela la sua prospettiva metodologica, mostrando quanto fosse lontano il suo pensiero dal pensiero economico convenzionale (in verità, lo aveva già svelato nel capitolo secondo ma, come dice lui stesso, sui limiti del paradigma mercatista – che chiama, come molti altri, ‘neoclassico’ – si sofferma “più estesamente” nel capitolo terzo.

In questo capitolo propone di trattare i ‘costi sociali’ – morti e invalidi sul lavoro ne sono un esempio, il più drammatico, ma ci sono molte altre caegorie di costi sociali –, non solo come tema teorico ma anche come tema empirico. Perché solo misurando l’entità dei costi sociali (“esternalità negative”, se si vuole) – in qualche modo, con inevitabili margini di approssimazione – ci si rende conto quanto il riconoscimento formale della loro esistenza non abbia grandi implicazioni se poi si assume che siano di marginale entità e li si dimentica. In effetti, questa è l’ipocrita e nefasta via d’uscita dell’ortodossia mercatista difronte al manifestarsi dei costi sociali. Nel citare quei dati, Caffè mette subito in chiaro il ruolo dell’evidenza empirica nella sua riflessione sul funzionamento del capitalismo – e come essa costringa ad assegnare una decisiva importanza ai costi sociali nel valutare il processo economico.

Il primo esempio che propone riguarda i morti e gli invalidi sul lavoro, ma sono molti altri i costi sociali da misurare e valutare nelle loro conseguenze sul benessere economico e sulla sua distribuzione. Il danneggiamento degli ecosistemi o l’esaurimento delle risorse sono altri due esempi che a lui appare naturale citare, quaranta anni fa, nel 1979. D’altra parte, gli erano già allora più che familiari i testi di autori (economisti) fondamentali nella riflessione sui costi sociali del processo economico come K.W. Kapp e E.J. Mishan – ai quali fa esplicito riferimento –, e il solo fatto che Caffè li prenda come ancoraggio della sua riflessioni indica la sua distanza dal paradigma mercatista (che senza l’ipotesi dell’irrilevanza delle esternalità non sta in piedi).

Come è tipico dell’argomentare di Caffè, il capitolo terzo nel quale discute dei costi sociali – e che ha un titolo trasparente negli intenti: “Calcolo individuale e calcolo sociale nelle scelte di politica economica” – contiene una breve rassegna critica delle diverse posizioni degli economisti sul tema. Ma contiene anche una presa di posizione esplicita: dichiara cosa pensa definendo le argomentazioni degli economisti che minimizzano il fenomeno dei costi sociali come “al limite dell’oscurantismo”.

 2.

Scorrendo l’indice di Lezioni di politica economica si incontrano due espressioni rivelatrici della prospettiva metodologica di Caffè: «il mercato nella sua realtà concreta» e «concrete ‘economie di mercato’». Caffè è disposto a seguire gli economisti che riflettono sul funzionamento dell’economia di mercato come stilizzata nella “teoria economica”, ma chiarisce che la ‘politica economica’ – l’oggetto del suo interesse – riflette sulle manifestazioni concrete dell’economia di mercato (sulle manifestazioni concrete del capitalismo, cioè sul capitalismo reale, quello in cui operiamo qui-ora). E giunge a guardare alla ‘politica economica’ come una disciplina distinta nell’ambito delle scienze economiche, perché essa si confronta con il funzionamento delle economie di mercato concrete, quelle nelle quali, ad esempio, ci sono costi sociali ingenti e drammatici. Che i meccanismi di mercato non sono in grado di ridurre, e diventa necessaria l’azione dello Stato. Le economie di mercato concrete (e tanto meno i capitalismi reali) non si auto-regolano.

3.

Non ho capito  cosa intenda dire chi afferma che Mario Draghi ha avuto Federico Caffè come ‘maestro’ e perché lo dica. Né ho capito se chi lo afferma abbia mai letto una sola riga degli scritti di economia di Federico Caffè. E non mi interessa saperlo. Mi interessa soltanto che qualche suo testo venga oggi riletto, come atto dovuto alla sua memoria.