Federico Caffè e i ‘costi sociali’

1.

Se volete capire “una volta per tutte cambi e valute” – come recita la fascetta aggiunta al libro (ne ho parlato nel post precedente) preparata distrattamente dalla redazione de “la Reppubblica” – non leggete il libro Lezioni di politica economica di Federico Caffè. Non vi servirebbe. Ci sono però molte altre buone ragioni per leggerlo e meditarlo, benché siano trascorsi più di 40 anni dalla pubblicazione della 1a edizione nel 1978.

Il capitolo terzo è certo il più importante.

A un certo punto, leggendolo, ci si imbatte in alcuni dati, tratti da uno studio empirico – dati che raccontano come nei primi due decenni del dopoguerra vi fossero stati 82.557 morti sul lavoro e 996.000 lavoratori resi permanentemente invalidi (“il doppio degli invalidi delle due grandi guerre mondiali messi assieme.”). Nel riportarli in un testo di introduzione alla politica economica Caffè svela la sua prospettiva metodologica, mostrando quanto fosse lontano il suo pensiero dal pensiero economico convenzionale (in verità, lo aveva già svelato nel capitolo secondo ma, come dice lui stesso, sui limiti del paradigma mercatista – che chiama, come molti altri, ‘neoclassico’ – si sofferma “più estesamente” nel capitolo terzo.

In questo capitolo propone di trattare i ‘costi sociali’ – morti e invalidi sul lavoro ne sono un esempio, il più drammatico, ma ci sono molte altre caegorie di costi sociali –, non solo come tema teorico ma anche come tema empirico. Perché solo misurando l’entità dei costi sociali (“esternalità negative”, se si vuole) – in qualche modo, con inevitabili margini di approssimazione – ci si rende conto quanto il riconoscimento formale della loro esistenza non abbia grandi implicazioni se poi si assume che siano di marginale entità e li si dimentica. In effetti, questa è l’ipocrita e nefasta via d’uscita dell’ortodossia mercatista difronte al manifestarsi dei costi sociali. Nel citare quei dati, Caffè mette subito in chiaro il ruolo dell’evidenza empirica nella sua riflessione sul funzionamento del capitalismo – e come essa costringa ad assegnare una decisiva importanza ai costi sociali nel valutare il processo economico.

Il primo esempio che propone riguarda i morti e gli invalidi sul lavoro, ma sono molti altri i costi sociali da misurare e valutare nelle loro conseguenze sul benessere economico e sulla sua distribuzione. Il danneggiamento degli ecosistemi o l’esaurimento delle risorse sono altri due esempi che a lui appare naturale citare, quaranta anni fa, nel 1979. D’altra parte, gli erano già allora più che familiari i testi di autori (economisti) fondamentali nella riflessione sui costi sociali del processo economico come K.W. Kapp e E.J. Mishan – ai quali fa esplicito riferimento –, e il solo fatto che Caffè li prenda come ancoraggio della sua riflessioni indica la sua distanza dal paradigma mercatista (che senza l’ipotesi dell’irrilevanza delle esternalità non sta in piedi).

Come è tipico dell’argomentare di Caffè, il capitolo terzo nel quale discute dei costi sociali – e che ha un titolo trasparente negli intenti: “Calcolo individuale e calcolo sociale nelle scelte di politica economica” – contiene una breve rassegna critica delle diverse posizioni degli economisti sul tema. Ma contiene anche una presa di posizione esplicita: dichiara cosa pensa definendo le argomentazioni degli economisti che minimizzano il fenomeno dei costi sociali come “al limite dell’oscurantismo”.

 2.

Scorrendo l’indice di Lezioni di politica economica si incontrano due espressioni rivelatrici della prospettiva metodologica di Caffè: «il mercato nella sua realtà concreta» e «concrete ‘economie di mercato’». Caffè è disposto a seguire gli economisti che riflettono sul funzionamento dell’economia di mercato come stilizzata nella “teoria economica”, ma chiarisce che la ‘politica economica’ – l’oggetto del suo interesse – riflette sulle manifestazioni concrete dell’economia di mercato (sulle manifestazioni concrete del capitalismo, cioè sul capitalismo reale, quello in cui operiamo qui-ora). E giunge a guardare alla ‘politica economica’ come una disciplina distinta nell’ambito delle scienze economiche, perché essa si confronta con il funzionamento delle economie di mercato concrete, quelle nelle quali, ad esempio, ci sono costi sociali ingenti e drammatici. Che i meccanismi di mercato non sono in grado di ridurre, e diventa necessaria l’azione dello Stato. Le economie di mercato concrete (e tanto meno i capitalismi reali) non si auto-regolano.

3.

Non ho capito  cosa intenda dire chi afferma che Mario Draghi ha avuto Federico Caffè come ‘maestro’ e perché lo dica. Né ho capito se chi lo afferma abbia mai letto una sola riga degli scritti di economia di Federico Caffè. E non mi interessa saperlo. Mi interessa soltanto che qualche suo testo venga oggi riletto, come atto dovuto alla sua memoria.